al romanzo Elegia provinciale (Fratini, Firenze 2013) di Giancarlo Micheli
pubblicata in Il Convivio (n.55, Anno XIV n.4, ottobre-dicembre 2013)
Poiché
tutti i miei studi hanno cercato di far procedere in parallelo musica e
letteratura, mi sento in grado di definire Elegia
provinciale di Giancarlo Micheli uno strano romanzo, avvertendo che a
questo aggettivo attribuisco un valore molto particolare, il quale contempla e
completa in sé anche ciò che si esprime di norma con i termini intrigante,
affascinante, seduttivo. Si tratta in effetti di un’opera piena di aspetti riposti,
che non possono non venire scoperti che attraverso molteplici riletture, fatto
che mi dispone a ripropormi di tornare a prendere in esame il lavoro di Micheli
in una trattazione più ampia di quella che consentano queste brevi note,
soprattutto nell’intento di dimostrare come la sua poesia e la sua prosa siano
perfettamente sposate da una situazione di scrittoio che è sempre progettuale
fino a sfidare il tormento. Benché la figura di Puccini stia al centro della
narrazione, con incredibile pudore l’autore non entra nel discorso musicale,
giacché la musica rimane piuttosto una sorta di chimera o miraggio, la quale
potrebbe forse essere proprio la chiave o il codice per penetrare meglio alle
sorgenti della sua ispirazione creativa ma che nel testo si deposita appunto
solamente in filigrana, per via di sporadiche citazioni dal libretto di Fanciulla del West, durante la cui
composizione accadono le vicende dell’intreccio. Qua consiste uno degli
elementi di fascino del romanzo, laddove la figura umana di Puccini viene posta
in primo piano mentre quella del musicista, di molto maggiore rilevanza, assume
contorni fantasmatici. Lo stesso fatto di cronaca da cui si trae spunto, la
triste sorte della domestica Doria Manfredi, ingiustamente accusata dalla
moglie del Maestro di aver avuto una tresca con questi, viene ad impregnare un
ambiente così da dare adito al titolo: Elegia
provinciale. Un titolo bellissimo, che descrive con icastica sinteticità il
milieu del racconto; eppure, la
struttura formale del romanzo non ha niente di elegiaco né tanto meno di
provinciale. Tutto torna e, al tempo stesso, tutto può essere rimesso in
discussione. Se questo romanzo fosse stato pubblicato alla metà del secolo
scorso, quando la critica d’avanguardia insorse contro il Metello di Pratolini nel frangente di storia letteraria in cui i
lettori italiani scoprivano Joyce e Proust, mentre nella collana mondadoriana
della Medusa sarebbe stata da lì a poco pubblicata la prima traduzione della Montagna incantata di Thomas Mann ed al
di là delle Alpi nasceva la Nouvelle Critique dal contesto in cui operavano
scrittori come Queneau o Robbe-Grillet, mentre si attendeva di veder proiettati
nel corso di una medesima stagione cinematografica film tra loro diversissimi
quali L’anno scorso a Marienbad di
Resnais e Accattone di Pasolini, se
dunque Elegia provinciale fosse
andato in stampa allora, allorché fu affermato che il romanzo dovesse avere
quale unico protagonista la scrittura – e da qui, naturalmente, Sanguineti,
Balestrini, lo stesso Eco, sebbene a quel tempo di romanzi non ne scrivesse
ancora –, ebbene io credo che l’opera di Micheli, in quella congiuntura,
avrebbe completamente scompigliato tutte le carte e tutti i vetri, giacché
essa, nella sua conduzione, affonda tranquillamente le sue lunghe radici nella
fabula e, nella sua forma, abbatte i muri del tempo, così come riescono a fare
soltanto gli scrittori veri. Io ho trovato affascinante pensare a questo
romanzo alla metà del Novecento e trovo affascinante pensarlo oggi. “Prima dell’unità di azione, tempo e luogo della nostra
storia, in un remoto passato, tra argini che ripartivano una vasta laguna
estesa dalla bocca d’Arno fino ai silvestri contrafforti delle Alpi Apuane,
nella terra ove si ambienta la vicenda che narriamo avevano finito per
mescolarsi i flussi germinativi dei Liguri-Apuani, della druidica radice
celtica, dei Tusci, aruspici e
cheraunomanti venuti dal mare delle matrilineari genealogie lidie, e dei
Latini, legislatori ed ebbri seguaci del plusvalore di codice impegnato nel
concetto di stato e riscattato, con usurario profitto, nel genitale
universalismo imperialista” dice, ad esempio, l’incipit del XII capitolo; ecco,
io ritengo che se oggi ci fossero stati tra i letterati italiani Gadda e
Manganelli, il romanzo di Micheli non si sarebbe salvato da effusioni
trionfali. Non cito a caso questi due nomi, perché a mio avviso essi sono i due
scrittori che costituiscono la sutura tra la tradizione narrativa novecentesca
ed un terzo millennio che, salvo poche eccezioni, sta ancora chiedendosi dove
debba andare. Micheli, invece, lo sa benissimo. Usa un sistema narrativo che è
pieno di sorprese, ma anche di ritorni e leit-motifs,
secondo una tecnica che amo definire di avvolgenza,
quasi vi si potessero rinvenire principî percettivi di ordine tattile, come
parrebbe corroborato dalla ricorrenza dei riferimenti
meteorologico-atmosferici: “Il cielo del freddo pomeriggio di febbraio era
battuto da alti venti, da ponente. Lo percorrevano candidi convogli di nubi
vaporose, mutevoli viaggiatrici delle sue azzurre strade. Quell’incessante
correre inebriava gli occhi e dava un senso di consolazione, suggeriva fantasie
di durevoli eternità”; ovvero “trascorsero giorni di fitti piovaschi,
interrotti da brevi schiarite che duravano finché il cielo era di uniforme
campitura, come pietra di turchese, e solo un lontano bordo di nubi grigie la
orlava verso ponente”; senza che in apparenza l’autore si accorga, o piuttosto
accorgendosi egli benissimo, di aver scritto qualche capitolo prima:
“trascorsero algide giornate di novembre, lacrimanti pioggia sui tetti dagli
embrici sconnessi della capitale lombarda, deserti tetti, sopra i quali solo
sparute coppie di piccioni si inseguivano in un frullare di umidore”. In altre
pagine, poi, tali condizioni del cielo vengono tradotte in lancinante
situazione umana, come ad esempio nella descrizione del momento in cui Doria
Manfredi si avvelenerà: “La frenesia dei suoi gesti si trasformava
nell’ottenebrata percezione di lei in uno spossante agitarsi dentro un liquido
viscoso che resisteva ad ognuno, penosamente. Infine, stremata, raccolse un
barattolo di vetro sul quale era stata incollata un’etichetta di carta”. Tutto
ciò che era scena, visione, si è all’improvviso trasformato in sensorialità.
L’interno si converte alla perfezione con l’esterno, e viceversa; in questo
senso, il titolo aderisce pienamente al contenuto del libro; la scrittura, però,
sempre sale, cerca ed emana, fino a domandare al lettore una complicità che
verrebbe quasi da dire utopistica, considerato che ormai da tempo il grado
medio di acculturazione del lettore italiano tende al ribasso. E così, come nel
film La famiglia di Ettore Scola si è
scelto il tema del corridoio per indicare la via di accesso alle stanze e alle
singole esistenze dei personaggi, in Elegia
provinciale l’autore seleziona quello della strada di fango, di un fango
che è sempre presente, tanto sotto a
cieli tersi ed estivi quanto sotto a piogge battenti, finché si sia persino
indotti a sospettare possa trattarsi di materia metaforica, a designazione del
fatto che la scrittura è una realtà oltre la realtà, cosicché davvero essa, più
di Doria, di Puccini, Elvira, Tonio, più del prete o del medico, diventa la
autentica protagonista del romanzo.
Rodolfo
Tommasi
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