elementi di
guerriglia intellettuale in Gramsci e Gobetti durante il Biennio rosso ed oltre
articolo di Giancarlo Micheli pubblicato ne Il Ponte – rivista di economia e cultura fondata da Piero Calamandrei (Anno LXXI, n.3 marzo 2015)
[...] Così Gramsci, nelle cronache teatrali dell’Avanti! del 3 Ottobre 1917, dipingeva il pubblico borghese del teatro Alfieri, calcando il pennello sui tratti nefasti delle ideologie comunicative in cui esso veniva a debuttare nel ruolo di oggetto di un ben spregevole svezzamento:
Eppure questi spettatori non sono dei grezzi ammassi di carne e ossa
fasciati di epidermide. Si commuovono, hanno la possibilità di commuoversi. Negli intervalli,
aggruppati nella breve saletta dei fumatori, ammutoliscono, impietriscono, si
schiacciano contro le pareti per lasciar che un giovane passeggi, con gli
occhiali neri, in divisa, barcollante al braccio di un amico, incerto delle
relazioni di spazio, come lo è ancora chi è sprofondato nel buio da poco, con
le pupille abbruciate da uno scoppio di gas esplodenti, da un soffio di gas
velenosi. Un velo di malinconia impallidisce questi spettatori, essi possono
sentire l'umanità, possono comprendere il dolore, possono atteggiare il volto
alla serietà, possono sentirsi velare gli occhi di cupa tristezza. Eppure, quando
il velario si apre, e le ridicole caricature di uomini e di donne del
palcoscenico riprendono a mettere in azione la loro macchina, i volti si
distendono alla gaiezza ebete, e l'atmosfera di bestialità si aggrava e
appesantisce. Le scempiaggini si rincorrono, si ammucchiano in immondezzai
colossali, traboccanti goffamente. La gagliofferia ha il sopravvento assoluto
sulla intelligenza, dilaga negli applausi, si approfondisce in risatine di
compiacimento: continua a perseguitarci nei vapori putridi della sera, nelle
nebbiosità dell'autunno che si avvicina.[1]
Non è
tempo che si getti al vento quello impiegato ad una sia pur breve disamina
delle recensioni teatrali gramsciane nel lasso che intercorse tra la firma
dell’armistizio di Compiègne, ove fu sancita la virtuale sospensione del
conflitto intercapitalistico, e l’inverno del 1920, quando il ghilarzese, dopo
aver profuse energie per dare sostegno intellettuale all’esperimento di
autorganizzazione operaia nelle fabbriche della Fiat, dovette constatarne il
fallimento dinanzi alla coesa reazione padronale. Il tono generale di questo
gruppo di testi si rivela essere non lontano dal sarcasmo né esente da cabrate
sino alle quote dell’invettiva, sebbene si distacchi in maniera sempre
sensibilissima dai canovacci classicheggianti delle deprecatio temporum che hanno costituita proficua catena nella
storia della cultura patria, con il durevole effetto di lasciare il tempo che
avessero, di volta in volta, trovato o, forse meglio, perduto. Nel dicembre del
1918, quando le ragioni dell’ordine trovavano docili esecutori persino nelle
file della socialdemocrazia tedesca, Gramsci, nel dare notizia di una
rappresentazione allestita al teatro Carignano, vergò una pagina assai
illuminante sui nessi strategici tra psicologie e costumi sociali quali vengono
indossati, tutt’oggi, sulla ribalta dell’incubo spettacolare messo all’incanto
affinché ogni devoto consumatore possa sostituirlo, ad un prezzo che gli paia
modico, alla propria esistenza di individuo nella specie, che il regime di
circolazione forzata delle merci e dei simulacri gli rende impossibile e gli
vieta. [...]
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