un articolo di Giancarlo Micheli
pubblicato in Il Ponte (Anno LXXIV, n.2, marzo-aprile 2018)
Una parte di piacere
che lo scrittore conosca nell’atto del proprio mestiere, dalla quale sarà
sapiente che egli non voglia escludere i propri eventuali lettori, ha ben da
esserci se il manufatto che sortirà dal suo operare sia destinato ad aver
pertinenza con il lemma “letteratura”, vuoi lo si interpreti nell’accezione
conferitagli dal pensiero critico-filologico, vuoi in quella del residuo senso
comune o nell’imminente contaminazione di entrambe che si offrirà, a guisa di
canone assiologico o idolo del pregiudizio, allo sviluppo cognitivo ed
emozionale degli individui appartenenti alle prossime generazioni.
In termini di una
plausibile “etica produttiva”, intesa come luogo di soggettività consapevole
benché intestina all’impersonale modo di produzione in vigore nella realtà,
sarebbe reprensibile, stanti le attuali condizioni imposte alla vita, voler
concedere all’esecutore della specifica arte che, all’aurora capitalistica, fu
chiamata ‘liberale’ una quota di godimento superiore a quella che competa ad un
fabbro, un operaio metalmeccanico, un imprenditore del pionieristico comparto
delle stampanti in 3D, un agricoltore, o chi compia un qualsivoglia lavoro
utile. Affinché i prodotti del lavoro umano (in qualsivoglia forma essi si
immolino all’estrazione del plusvalore) vengano scambiati nei modi e nelle
misure tali da favorire un effettivo progresso della società, suffragato da
pace e giustizia, un simile privilegio, di genere peraltro tanto spurio da non
declinarsi in motivazioni psicologiche altro che per denotare una asfittica
crisi inflattiva nello spazio di un dominio della produzione segnica immiserito
fino alla più vieta e meccanica stereotipia, deve essere rifiutato con
fermezza. C’è dell’altro, infatti. Data la polverizzazione entropica degli atti
comunicativi, raccolti come messe pressoché incommestibile dai nuovi strumenti
di organizzazione dell’esperienza (la rete informatica ed i suoi supporti di
interfaccia), per ogni donna o uomo che sia ancora capace di aspirare
sinceramente ad un risultato estetico, congruo al progresso della conoscenza
del sogno e della realtà, l’atto di scrivere
equivale ad immergersi nei succhi gastrici dell’economia capitalistica quale
fallimento metabolico del processo nutritivo che le starebbe nel ventre in
figura di metafora. Un lavoro per stomaci forti, senza dubbio. Le speranze di
venirne fuori senza essere ridotti a miseri resti o a quel che si suol dire un
nonnulla sono ridotte al lumicino. Generose dosi di silenzio saranno profilassi
indispensabile, laddove si voglia evitare la generale frivolezza che non ha
scrupolo di esibire la frammentaria arbitrarietà di cui si compone l’immagine
riflessa dove il lettore, sempre più solitario, quasi sperduto nel vuoto
cosmico che gli si allarga attorno come un mistero sempre meno sondabile,
finisca per ravvisare pur tuttavia solo se stesso, non il mondo che appariva
nello specchio del mito dionisiaco, né a
fortiori il volto dell’altro, la cui visione solamente inizia al cammino
lungo il quale una successione possibile di tempi presenti giova all’evoluzione
della specie.
In un’epoca più della
nostra incline alla sobrietà, giacché non era trascorso un anno dalla
convenzionale conclusione dell’ecatombe bellica che, senza lesinare i più
innovativi ritrovati tecnici, dalla camera a gas alla bomba atomica, né i più
sperimentati, dalla fame alle epidemie, aveva materialmente tolto dalla faccia
della terra almeno uno su venti dei suoi abitatori umani, oltre ad aver dato
l’abbrivio a prospettive di distruzione viepiù ambiziose di quelle direttamente
praticate contro la specie, George Orwell meditò di dare alla propria opera che
sarebbe in seguito divenuta universalmente nota il titolo di The Last Man in Europe, il quale suona
forse persino eufemistico in piena èra globale, quando i centri del potere ed i
gangli dell’autopercezione vanno decisamente ridislocandosi, ma non sarebbe
d’altronde riuscito così inattuale al pari di quello che, una volta adottato
dall’editore Secker & Warburg, lo confina all’opaca estraneità di una
cronologia troppo facile da falsificare. A quanti conservino il desiderio di un
giudizio onesto sarà in qualche modo chiaro che la società descritta in 1984[1]
non definiva il mero sviluppo diegetico dei pur comprovati convincimenti antistalinisti
dell’autore quanto altresì un monito profetico sulla china totalitaria per la
quale sarebbero rovinate le stesse democrazie occidentali, fino all’attuale
regime ecumenico del controllo mediatico delle azioni e delle coscienze.
In cosa consistesse lo hic rodus hic salta, al cui valico
tutt’oggi dobbiamo riconoscerci pigri e quasi infingardi, il figlio di un
funzionario coloniale del Bengala britannico volle precisarlo in un saggio
contenuto nella raccolta Shooting an
Elephant and Other Essays[2],
che il medesimo editore dette alle stampe nell’anno successivo alla
pubblicazione del celebre romanzo distopico:
L’essenza dell'uomo è tale che non si cerca
la perfezione, che si è talvolta disposti a commettere un peccato per amore
della fedeltà, che non si spinge l'ascetismo al punto da rendere impossibile
l'amicizia, che si è preparati alla fine a essere sconfitti e distrutti dalla
vita, prezzo inevitabile per aver riversato l'amore su un’altra persona. Va da
sé che alcol, tabacco e simili sono cose delle quali un santo deve fare a meno,
ma anche la santità è una cosa che gli uomini devono evitare. […] Molte persone non desiderano affatto divenire sante, ed è probabile che
quelle che raggiungono o ambiscono la santità non siano mai state lusingate
dalla loro condizione di esseri umani. Se fosse possibile penetrarla sin nelle
motivazioni psicologiche si scoprirebbe, penso, che il motivo principale
dell’“ascesi” è un desiderio dì rifuggire le tribolazioni terrene e soprattutto
l’amore che, sessuale o no, è cosa
ardua. Non è
necessario in questa sede disquisire sul fatto se sia “più nobile” l'ideale
umanistico o quello trascendente. Il fatto è che essi sono incompatibili. Si
deve scegliere tra Dio e l'uomo, e tutti
i “radicali” e i “progressisti”, dal più blando dei liberali al più
estremista degli anarchici, hanno in realtà scelto l’uomo.[3]
Si trattava di una
scelta politica. Nel medesimo anno 1946, Eric Blair – questo era il nome con
cui l’autore della Fattoria degli animali[4]
e di Omaggio alla Catalogna[5]
era stato battezzato nel terzo anno del Novecento, nella città di Motihari, che
oggi fa parte dello stato indiano del Bihar ed allora apparteneva alla Bengal
presidency dell’Impero britannico, laddove lo pseudonimo tramite il quale la
sua fama andava diffondendosi, non solo tra i lettori di lingua inglese, era stato
selezionato nella rosa da lui proposta all’editore Gollancz nella circostanza
della pubblicazione del suo reportage sulle condizioni di vita nei bassifondi delle
metropoli per antonomasia dell’Occidente europeo, Down and Out in Paris and London[6],
quando si era al principio dell’anno che avrebbe visto in Germania l’ascesa al
potere del nazismo – aveva sintetizzato i moventi principali che, a suo avviso,
giustificavano i contemporanei che fossero disposti a sobbarcarsi «una lotta
orribile ed estenuante, come un lungo periodo di dolorosa malattia»[7],
a dedicarsi ad un’attività che «non bisognerebbe mai intraprendere a meno di
non essere guidati da un qualche demone incomprensibile al quale non si può
resistere»[8].
In un breve saggio apparso nel numero estivo della rivista trimestrale «Gangrel»[9],
al quale aveva dato l’esplicito titolo di Why
I Write, egli aveva scritto che a motivare qualcuno ad una pratica
abbastanza insolita qual era allora scrivere un libro intervenivano quattro
stimoli fondamentali: l’egoismo, l’entusiasmo estetico a percepire la bellezza
del mondo riflessa nelle parole, l’impulso storico a scoprire la verità dei
fatti ad uso dei posteri e, infine, lo scopo politico, «il desiderio di spingere
le parole in una certa direzione, per cambiare l’idea altrui di quale sia il
genere di società per cui lottare»[10].
Senza dubbio la
personalità di colui che seppe formulare tesi così esplicite, tutt’altro che
agevoli da fraintendere o misconoscere, fu abbastanza complessa perché non sia
semplice collocarla all’interno di una singola categoria politica, né esprimerla
secondo l’ideologia di uno dei partiti che gli furono coevi, né secondo criteri
meno restrittivi, tant’è che si sarebbe presto costretti a rinunciare ad un’univoca
soluzione classificatoria, per dover magari constatare come egli sia stato, di
volta in volta, un fascista per gli stalinisti, un borghese per i trotzkisti o
un socialdemocratico per i conservatori. Il fatto è un altro: per i veri scrittori,
coloro che anche oggi concorderebbero con le motivazioni addotte da Eric Arthur
Blair e nel novero dei quali egli va contato a
guisa di relativo capostipite, le vicissitudini biografiche sono, al
massimo, l’espediente principale che conduce all’opera, esattamente il
contrario di quanto soglia oggigiorno da parte di tutta un’eteroclita compagine
di autoidolatri, le cui esilissime operette bastano a legittimare, di giorno in
giorno sempre più apoditticamente, la progressiva estinzione dei veri lettori
all’unisono con le proprie artificiose e narcisistiche apoteosi. Nel curriculum
vitae dell’erede di un funzionario dell’amministrazione coloniale che, servendo
la Corona nello strategico dipartimento dell’oppio dello Indian Civil Service,
aveva guadagnato alla famiglia il pane ed il prestigio consono ai costumi della
piccola borghesia, il primo utilizzo di un’identità fittizia risaliva appunto
ai primi anni Trenta, quando, esaurita un’ostica esperienza in Birmania dove
calcò non senza incespicare le orme paterne, egli aveva sperimentato per alcuni
mesi la vita del sottoproletariato urbano nell’East End londinese. Nel
confondersi alla folla cenciosa dei tramps,
che avrebbero poi popolate le pagine della sua inchiesta, Eric si era
dissimulato sotto il falso nome di P.S. Burton; ed il ritratto della periferia dell’urbe
capitalistica gli era riuscito in una serena, a tratti quasi comica, novella
picaresca, in cui barcollavano sudici e frusti vecchietti professanti idee
bolsceviche durante il diurno accattonaggio per patire poi, sotto gli effetti
di sbornie ben più rare e quindi degne di felicitazioni di quanto opinasse la
pubblica opinione, notturne conversioni al più suscettibile patriottismo, oltre
a prostitute e sorveglianti degli ospizi per poveri, immigrati di tutte le
etnie sulle cui carni farcite di forza lavoro l’Impero avesse allungato le
adunche propaggini, oberato ciascuno dalla personale miseria del proprio
lessico contaminato, contendente ai fiati clorotici il soffio vitale sul
sottofondo dello sferragliare dei tram e tra le intermittenti esplosioni dei
litigi per una fetta di pane spalmato con un briciolo di margarina o una tazza
di tè rancido; una ben lugubre fiaba, al postutto, ad uso e consumo delle
coscienze infantili dei contemporanei, nella minoranza di probi ed equanimi dei
quali essa poté tuttavia esser letta come una seria disamina delle cause che
producevano l’affiorare di quella feccia ripugnante dalle cloache dell’ordine
economico in vigore. Eppure, era lo stesso principio di causa ed effetto che
veniva allora vacillando sotto i colpi degli insorgenti totalitarismi quali
meglio adeguati agenti del monocratico capitale, per la trinitaria sostanza del
quale si può adesso affermare che il fregiarsi dell’attributo privato ovvero
statale non costituisse mai discrimine decisivo.
Qualora si ponga mente
al principio di indeterminazione di Heisenberg, al teorema di indecidibilità di
Gödel, alle formulazioni del principio di falsificabilità popperiano, che
vennero a costituire la base gnoseologica dell’ortodossia neoscettica in
Occidente e non solo, tutti passi che la scienza compì verso la riduzione della
materia ai paradossali e profondi nessi con lo spirito nascente dalla sua
comprensione, tutti compiuti in un torno di tempo che precedette immediatamente
la seconda guerra mondiale, tant’è che essa trapeli, oggi, quale mostruoso ed
abnorme esperimento sull’uso efficace della violenza allo scopo di determinare
i comportamenti dei soggetti umani che la subiscano, qualora si abbia dunque la
forza di soffermare il pensiero nella contemplazione dei conseguenti abomini,
allora veniamo proiettati, con relativa facilità, all’interno dell’universo
claustrale, patria di un eternato abuso, dove respirano a fatica gli eroi della
distopia orwelliana. In tal modo sarà meno ostico, sebbene ciò non consenta
ancora di scansare la fatica procurata dall’empatia per la sorte catabatica dei
personaggi, intuire la vera e propria similitudine che sussiste tra la società
in cui si inneggia che «la guerra è pace», «la libertà è schiavitù» e
«l’ignoranza è forza» (questi sono gli slogan ai quali istruisce ad aderire in
piena fede il partito unico dominante lo Stato di Oceania, perennemente in
guerra contro l’Estasia o l’Eurasia, a seconda di geometrie strategiche intese
al “combinato disposto” – neolingua – di disputarsi, peraltro con senile e non
per questo meno crudele svogliatezza, la riserva di manodopera sottoproletaria
residente, ai mutui confini delle tre superpotenze, in una vasta riserva di
caccia estesa dal Golfo di Guinea al Medio Oriente e variabili al compimento di
ogni ciclo quadriennale, al cui sopravvenire il passato viene scrupolosamente
riscritto in ogni particolare affinché alle coscienze non resti appiglio per
alcuna motivata contestazione) e quella in cui tocca vivere a noi, in carne ed
ossa, lacrime e sangue.
D’altronde, anche solo
per scrivere qualche nota che abbia senso sul capolavoro orwelliano che
purtroppo oggi è invece rinomato a causa di un esubero di parassitari conii,
ricavati dallo sfruttamento commerciale delle invenzioni letterarie contenutevi
(la Polizia del Pensiero, la Neolingua e, soprattutto, l’esponenziale Grande
Fratello), bisogna sentirsi sotto la pelle morsa dalle cimici di Winston Smith,
il protagonista perennemente braccato dal sistema che viola la stessa integrità
dell’intima coscienza. In ciò vi è tanto poco piacere quanto poca sapienza
nello sfidarsi gli un gli altri ad immaginare fittizi asili di serenità o a
pretendere di dissipare analiticamente il velo dietro al quale dissimuliamo la spietatezza
qual è ormai suppurata nell’ipocrisia ecumenica del falso benessere.
Eppure attraverso
questo immenso dispiacere deve passare con una certa forza e un certo coraggio
chi prenda seriamente le proprie azioni e non le fraintenda con le cedole ad
effetto delle quali la ricchezza si distribuisce, in ogni istante ed in via
quasi automatica, agli immeritevoli. Per chi abbia pur vaga la cognizione del
mondo in cui vive non è di alcun conforto aver appreso dalla storia che tutti i
regimi, in cui la civiltà degenera al decadere di ogni suo ciclo, implodano e
si autodistruggano; la forza e il coraggio di cui egli ha necessità gli
verranno dalla chiara cognizione di ciò che degli estinti strumenti di
oppressione è stato integrato in quelli che gli rendono impossibile il
presente.
Se rovesciamo, infatti,
i termini dell’analogia e prendiamo in considerazione le nostre metropoli, dove
un terrore senza volto colpisce alla rinfusa tra l’anonima folla mentre l’amore
tra gli esseri umani diviene di giorno in giorno più raro e quasi elemento di
“folclore”, si corrobora la sensazione di quanto Eric Arthur Blair sia stato vicino
a darci ragguagli sullo stato presente della nostra “civiltà”.
Chi sentisse in questi
giorni il richiamo a tornare alle pagine di 1984,
o di altre opere di narrativa che la possano degnamente affiancare – e forse
ancora oggi ne vengono scritte e pubblicate , chissà? –, sopporti che non gli
sia dato trovare se stesso in qualche mito lenitivo, ravvisare il proprio
sembiante nelle vesti di principesco eroe del bene o del male,
indifferentemente, si rallegri di essere invece il rospo cui lo stesso Orwell
dedicò un elogio in un articolo apparso sul bisettimanale socialista «Tribune»,
pressoché alla vigilia della fine di Hitler nei sotterranei della Wilhelmstraße
e dell’esplosione delle atomiche su Hiroshima e Nagasaki:
Prima delle rondini, prima delle giunchiglie e non molto più tardi dei
bucaneve il rospo saluta l’arrivo della primavera a modo suo, uscendo da un
buco nel terreno, dove è rimasto sepolto dal precedente autunno, e striscia, il
più rapidamente che può, verso la più vicina e
conveniente pozzanghera.[11]
Nel muoversi con la fretta che i tempi consigliano, il
lettore davvero eroico rammenti che «la primavera è sempre primavera. Le bombe atomiche
si ammassano nelle fabbriche, le polizie s’aggirano minacciose per le città, le menzogne
piovono dagli altoparlanti; ma la terra continua a girare intorno al sole e né
i dittatori né i burocrati, per quanto profondamente ostili alla cosa, sono in grado
di impedirglielo»[12].
Giancarlo Micheli
[1] George Orwell, Nineteen Eigthy-Four, Secker & Warburg, London, 1949; ed.it. George
Orwell, 1984, Mondadori, Milano,
1950.
[3]
George Orwell, Riflessioni su Ghandi
in Nel ventre della balena e altri saggi,
Sansoni, Firenze, 1988.
[4]
George Orwell, Animal Farm, Secker
& Warburg, London, 1945; ed.it. George Orwell, La fattoria degli animali, Mondadori, Milano, 1947.
[5]
George Orwell, Homage to Catalonia,
Secker & Warburg, London, 1938; ed.it. George Orwell, Omaggio alla Catalogna, Mondadori, Milano, 1948.
[6] George Orwell, Down and Out in Paris and London, Gollancz, London, 1933; ed.it.
George Orwell, Senza un soldo a Parigi e
Londra, Mondadori, Milano, 1966.
[7]
George Orwell, Perché scrivo in Nel ventre della balena e altri saggi,
Bompiani, Milano, 1996.
[9]
La rivista, che venne pubblicata a Londra dall’ottobre del 1945 al giugno del
1946, aveva per titolo un lemma dialettale scozzese, corrispondente all’inglese
vagrant e all’italiano vagabondo o accattone.
[10]
Ibi.
[11]
George Orwell, Elogio del rospo in Tra sdegno e passione, Rizzoli, Milano,
1977.
[12]
Ibi.
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