La grazia sufficiente (Campanotto, 2010)
pubblicata su literary.it (n.5/2012)
La grazia sufficiente, edito da Campanotto, è il terzo romanzo di Micheli, ed è, forse, il suo lavoro più maturo, per certe soluzioni stilistiche ancor più radicate di quante non se ne ritrovino nei precedenti. Una scrittura densa, sanguigna, che per certi aspetti ricorda Manzoni – quantomeno nell’architettura stessa della prosa e nel suo poderoso assetto – molto lontana da quella, usa e getta, che oggi va per la maggiore. Facendo ricorso a una metafora, se oggi è in auge il vino poco strutturato, il cui gusto ricorda quello di celebri bevande frizzanti e analcoliche, qui siamo invece di fronte a una bottiglia di vino che ha corpo, personalità: un vino vero. Ecco, Giancarlo Micheli è uno scrittore vero, che ha uno stile, una precisione descrittiva, una ricchezza lessicale straordinaria. Talvolta il lettore potrà imbattersi in passi che richiedono un certo impegno, ma avrà comunque la fortuna di confrontarsi con un’opera che lascia il segno, anche nell’esperire le potenzialità espressive e comunicative della nostra lingua. La sintassi piena, ipotatticamente orientata, la scrittura avvolgente, fascinosa, originalissima, anche nella sovrabbondanza delle immagini – che determinano necessari, e accattivanti, rallentamenti – moltiplicano le possibilità di raffigurazione della realtà, facendola ruotare ad angolo giro sugli assi della propria rappresentabilità. Affiorano un po’ ovunque, intrecciandosi in un robusto tessuto linguistico, gergo comune, non esente da toscanismi, lessico scientifico, settoriale o specialistico. Si veda, ad esempio, l’articolatissima terminologia marinaresca con cui, nelle prime pagine, si descrive la vicenda di un naufragio:
In egual guisa, nell’idrostatico abisso dell’oceano, affondava il capitano Baruch Dekker; volgeva il capo in alto e spalancava gli occhi nell’acqua salsa, osservando, ritagliata contro l’alone di cui il sole macchiava la sovrastante superficie, la sagoma scura del giustacuore, che era appena riuscito a sfilarsi di dosso, e che, ora, galleggiava sopra di lui, somigliante ad un minaccioso sudario. Sempre in alto, ma sulla sinistra della verticale lungo la quale il capitano, per quanto mulinasse di gambe e braccia, tirava a dritto verso il fondale marino, sulla sinistra, benché offuscata dietro un reticolo di riverberi di cui il sole, beffardamente, trafiggeva l’equoreo spessore, sulla sinistra il capitano intuiva una più vasta mole, scossa dalle onde con incombente panneggio. Realizzò confusamente dovesse trattarsi della vela di controbelvedere che, poco prima, quando l’albero di maestra si era spezzato, aveva vorticato nelle elettriche folate del vento e, dopo aver sbattuto contro l’impavesata, era andato ad incastrarsi sotto la chiglia. Tratteneva il fiato il capitano Baruch. Sentiva il corpo pesare sugli strati d’acqua gelida e fosca, allorché apparve, ad un palmo dal suo naso, una lignea forma oblunga, la quale rimontava verso la superficie, con soteriologica inerzia risputata dal sorso immane dell’oceano.
La fiction è sostenuta da un’impalcatura storica – appunto da “vero per soggetto” – di notevole spessore. Il romanzo è ambientato nel Giappone del XVII secolo, dove un capitano di origine ebraica della Compagnia delle Indie orientali olandesi, Baruch Dekker, si trova a doversi ricostruire una vita in seguito al naufragio del bastimento di cui gli era stato affidato il comando. In tale difficile impresa, catapultato in mezzo ad una cultura aliena e ignota, avrà successo grazie all’incontro con una geisha, Netsuki, dalla quale avrà pure un figlio, Aikyo. Con loro formerà una famiglia, che si prodigherà poi a difendere. Alla rigida cultura autoctona del Giappone feudale appartiene, invece, il secondo personaggio, Taisho. Due storie parallele, quindi, che si accavallano sullo sfondo di un intreccio ulteriore, quello tra la nostra civiltà occidentale e l’orientale. Compaiono, infatti, nel racconto le vicissitudini delle guerre di religione del Seicento europeo, dal cui fanatismo e dalle cui persecuzioni l’ebreo Baruch Dekker si volge in fuga, abbandonando la terra natale olandese dinanzi all’invasione delle truppe del Re cattolico guidate da Ambrogio Spinola. Non mancano excursus sul mondo calvinista, con precisi riferimenti alle questioni teologiche che opposero arminiani a gomaristi, i notabili della borghesia mercantile all’aristocrazia delle armi. Di queste diverse culture si descrivono nei dettagli i luoghi degli incontri, come quando si narra del sequestro del carico del galeone spagnolo San Felipe per ordine dello shogun, episodio da cui ebbero inizio le persecuzioni contro i missionari cattolici, a rendere testimonianza della ferocia e spietatezza delle quali proprio il protagonista del romanzo, Baruch Dekker, assisterà ad un episodio assai crudele, quello della fumi-e (i sacerdoti cattolici venivano costretti a calpestare le immagini sacre alla loro religione in segno di abiura).
Nel testo di Micheli si incontrano poi dialoghi e monologhi intensi e sostenuti, formulati in un linguaggio alto, che presenta talvolta uno scarto rispetto a quello che potrebbe essere un quadro realistico delle situazioni narrate, ma sempre con l’intento di distillarne il contenuto lirico o epico:
“Sapete cosa c’è dentro le casse che abbiamo scaricato?” aveva chiesto il primo marinaio, guardandosi tra i piedi sospesi sull’acqua verde della darsena, e subito prima di versarsi in gola un robusto sorso ristoratore dalla fiaschetta che estrasse dalla fodera della marsina sdrucita.
Nei lunghi anni di navigazione Baruch aveva appreso a cavarsela in maniera decente con la lingua lusitana. Squadrò dall’alto in basso l’interlocutore, un tipetto baffuto e segaligno, di pelo ispido e scuro, la cui testa, in postura eretta, non sarebbe arrivata alle sue spalle; quindi Baruch si prese un attimo per riflettere, prima di rispondere con affettata pacatezza.
“Di tutte le cose che soddisfano i suoi bisogni, l’uomo attribuisce il maggior valore a quelle che meno gli sono indispensabili. Sui galeoni ho trasportato lo zucchero di canna dalla Guyana alle Azzorre, il pepe da Cochin a Melinda o a Hormuz, perfino l’oro dalla foce del Congo fino ad Anversa, e schiavi perfino, da Capo Verde ai Caraibi. Per tutti i mari e tutte le terre, però, ho incontrato davvero pochi uomini che sapessero sorridere, che sapessero prendere soddisfazione dalle loro vite. Ovunque tristezza e afflizione, tra i miserevoli quanto tra i più doviziosi. Pure i mercanti che mi hanno affidato i loro traffici, non ricordo di averli mai visti felici. Forse hanno gioito in segreto, quando sono andati a incassare le loro carte di credito dai banchieri. Amico…” e osservò qua una pausa il capitano Dekker, durante la quale fissò il portoghese, tanto intensamente che questi trasse indietro le spalle, sorpreso, quasi timoroso di ciò che l’altro era sul punto di aggiungere. “L’unica cosa che mi sorprenderebbe è se le casse imbarcate sulla vostra feluca contenessero la felicità di qualcuno.”
Dove questa tensione poetica percorre le pagine con evidenza ancora maggiore è nelle descrizioni dei paesaggi:
I portoghesi piegarono per una stradina in salita, che si inerpicava sulle pendici di un colle, e Baruch andò loro dietro, silenzioso e meditativo. Poco oltre, dove le costruzioni diradavano, la stradina sbucava in un tetro ghiaione, proteso da lì fino alla cresta della cima. La palla incandescente del sole, ormai bassa sopra l’orizzonte, era scomparsa, inghiottita oltre il dente azzurrino della cresta. La natura del luogo era orrida, deserta, macchiata la pietraia solo da radi cespugli di erbacce; si aveva l’idea di essere, all’improvviso e senza faticare su per ostiche balze, in alta montagna, dove l’aria impalpabile nutre matrignamente la terra franta e antica. Al di là della linea frastagliata delle rocce si scorgeva soltanto il cielo sgombro di nubi e, a settentrione, dove l’uniforme campitura turchese virava ad uno zaffiro opaco, le prime stelle della sera mostravano le loro pudiche lanterne, in disparte.
Questa lingua ricca, in qualche misura debordante, ricrea una realtà, la reinventa rallentando l’azione, si diceva, per indicarne una parallela, data da questo posarsi sulle cose, investigandole nei minimi dettagli, indugiando sugli stati d’animo dei personaggi, rinvenendo nuove occasioni narrative. Ed è una scrittura coraggiosa, perfino spericolata in questo suo orientarsi controcorrente e tendere verso l’alto, in questo suo offrirsi al lettore come momento che trova in sé, nel suo darsi, la propria ragione e il proprio compimento. In tal senso il romanzo può essere guardato anche come un laboratorio di scrittura, considerata non solo come modo di rappresentare la molteplicità del reale, ma anche come snodo attorno a se stessa, come ricerca delle proprie potenzialità semantiche, sintattiche ed estetiche. I personaggi del romanzo sono immersi in questa procedura pervasiva: le loro voci risultano come uniformate al taglio letterario, quasi intossicate di letteratura, permeate dallo stile che informa tutta l’opera e conferisce ad essa unità di rappresentazione, anche in tale suo moltiplicarsi e scindersi in soggettività plurime, in distinte sfaccettature della realtà che si incastrano tra loro e concrescono alimentandosi le une sulle altre. È proprio lo stile della scrittura di Micheli e la potenza plastica della sua parole che riescono, dunque, ad illuminare le cose in tutta una serie di aspetti su cui, altrimenti, il nostro occhio non si poserebbe.
Francesco Macciò
Se sei interessata/o al romanzo,
fai clic qua
oppure qua
Nessun commento:
Posta un commento