cronotopi
nella prosa surrealista
articolo di Giancarlo Micheli pubblicato nel volume Memoires (Limina Mentis, Monza 2014; a cura di Antonio Melillo, pp. 317)
Per
il senso letterario assodato – il quale, nondimeno, pena la propria
autoestinzione, non potrà mai essere comune quanto la mediocrità degli
organismi economici e sociali, in ogni epoca, esige dalle forme della coscienza
relativa in guisa di prezzo di realizzo – l’esperienza delle avanguardie
novecentesche si compì entro i limiti di vincoli costrittivi, nel recinto
d’infanzia delimitato da un costituzionale difetto di legittimità. Ciò si
rivela in maniera evidente ad un esame, anche sommario o tendenzioso, del ruolo
svolto dal movimento surrealista nell’ambito del sistema delle patrie lettere
francesi. I testi surrealisti che godettero di maggiore eco, e che tutt’oggi
esercitano malintesi fascino e richiamo dalle foreste al di sopra delle quali
volarono, pagine di romanzi incompiuti dalla vita e disattesi dalla storia,
ebbero respiro nell’ambito di generi quali il pamphlet e il saggio tirtaico [1],
i quali, d’altronde, già al tempo della redazione dei manifesti bretoniani [2]
o del Traité du style [3] di
Aragon, vantavano una loro propria e specifica tradizione. Assunti, pertanto,
sin dalla nascita in ambiti contraddittorî e ambivalenti, essi si dibatterono
presso l’involutiva temperie contemporanea per strappare ai sedimenti del
passato, alle cripte della memoria fattasi canone e prescrizione lungo secoli
di assuefatto ottundimento, i residui di avvenire che vi sono da sempre
depositati, per riportare alla luce di un nuovo mattino le vene auree che
genealogie ipocrite e mendaci avevano consegnate alle anodine tenebre di
consuetudini e dogmi. Lo stesso sviluppo che portò dalle esordienti
intemperanze performative del processo a Maurice Barrès del 1921 alle peculiari
forme liriche della scrittura automatica e, progressivamente, alle
sperimentazioni sul tema dell’essai
cui si è fatto cenno, può, a buon diritto, essere interpretato in senso almeno
duplice: da un lato esso si configura quale riassorbimento del discorso
surrealista nell’alveo della legittimità letteraria, laddove, dal lato opposto,
traspare come tentativo di presa di terreno ad ampio raggio sui molteplici
dominî soggetti alla norma consolidata.
Esiste,
poi, una ulteriore serie di opere le quali hanno ricevuto accoglienza meno
ospitale nella terra che gli agrimensori delle belle lettere non hanno smesso
un solo giorno di rendere meno vergine dacché una qualche decimazione di
capostipiti ha dato la stura a stirpi di epigoni sempre meno feconde man mano
che i passi originari si addentrarono, a ritroso, nelle canute nebbie della
memoria, opere quali Le paysan de Paris [4]
di Louis Aragon, Nadja [5] e
L’amour fou [6]
di André Breton. Vi si trovano intrecciati il registro narrativo e quello
saggistico, mai però secondo il protocollo di cui il meglio credibile tra i teorici
moderni del romanzo, Michail Bachtin, estrasse la giustificazione dalle miniere
del realismo ottocentesco; racconto e riflessione vi paiono, piuttosto, rifusi
e amalgamati in una lingua ambiziosa al di là della misura di designazione e
significazione, luogo degli affioramenti inconsci sulle superficie significanti
nelle quali il testo si tesse e si disfa; si potrebbe definirla una lingua simmetrica, qualora si volesse
far riferimento agli studi dello psicoanalista cileno Ignacio Matte Blanco, che
fu tra gli intimi discepoli di Freud al tempo dell’esilio londinese e tentò una
coraggiosa descrizione del sistema inconscio alla luce dei concetti della
logica formale [7], in base
alla quale esso si esprimerebbe in relazioni simmetriche tra i propri elementi,
al contrario di quanto accade alla coscienza vigile, razionalmente governata da
relazioni asimmetriche e dal principio di non contraddizione. In un sistema del
primo tipo, dunque, se la proposizione “Hegel è padre di Breton” è vera, allora
è vera pure l’inversa, “Breton è padre di Hegel”, cosicché non vi è possibile
ordinamento temporale né spaziale, ogni parola vi è provvista di ubiquità e di
eternità.
È
chiaro, pertanto, che non sia facile né immediato applicare agli esemplari
della prosa narrativa surrealista i criteri che Bachtin andava elaborando
proprio nei medesimi anni in cui vennero pubblicati Le paysan de Paris (1926), Nadja
(1928) e L’amour fou (1937). Dopo
aver assistito, nell’estate del 1925, ad una conferenza del professor Aleksej
Alekseevič Uchtomskij sul cronotopo in biologia, lo studioso di Orel intraprese
la stesura del complesso trattato Le
forme del tempo e del cronotopo nel romanzo [8],
che poté portare a conclusione, nel sordo grigiore della cultura ufficiale del
capitalismo di Stato sovietico e tra innumerevoli boicottaggi da parte del
complesso burocratico, soltanto nel 1938.
La prima, in termini cronologici, nella triade di
opere su cui focalizzeremo l’attenzione comparve sui numeri della Revue européenne, dal giugno 1924 al
giugno 1925, e fu pubblicata in volume nel corso dell’anno successivo, per i
tipi della Nouvelle Revue française
del prestigioso editore Gaston Gallimard. A capo del Bureau des recherches surréalistes [9],
al numero 15 di rue de Grenelle, proprio dirimpetto alla redazione della Nouvelle Revue française, l’accreditato
periodico attraverso le cui pagine alcuni surrealisti si affacciarono oltre la
soglia domiciliare delle lettere francesi non senza scalfire, in tal modo, la
solidità delle pulsioni eversive sulle quali il gruppo fondava la propria
collettiva intransigenza, a capo dell’eterodosso stato maggiore surrealista
stava allora Antonin Artaud, il quale, nella circostanza dell’insediamento,
aveva lanciato proclami incandescenti:
Considerata la falsa
interpretazione del nostro tentativo che è stata stupidamente divulgata in
pubblico, teniamo a dichiarare ciò che segue a tutta la farfugliante critica
letteraria, teatrale, filosofica, esegetica e anche teologica contemporanea:
noi non abbiamo niente a che vedere con la letteratura. Il surrealismo non è un
mezzo di espressione nuovo o più facile, neppure una metafisica della poesia. È
un mezzo di liberazione totale dello spirito e di tutto ciò che gli somiglia.
Il surrealismo non è una forma poetica. È un grido dello spirito che ritorna
verso se stesso ed è ben deciso a schiacciare ciò che gli si oppone, alla
bisogna con martelli materiali. [10]
[...]
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[1] Dal poeta greco del VII sec.
a.C. Tirteo; in ragione di ciò che della sua opera si è tramandato, l’aggettivo
tirtaico viene inteso a designare testi che esortino alle virtù etiche e
civiche.
[2] André Breton, Manifesti del surrealismo, Milano,
Einaudi, 2003.
[3]
Louis Aragon, Traité du style, Paris,
Gallimard, 1928.
[4] Louis Aragon, Il paesano di Parigi, Milano, il
Saggiatore, 1996.
[5] André Breton, Nadja, Torino, Einaudi, 1972.
[6] André Breton, L’amour fou, Torino, Einaudi, 1974.
[7] Ignacio Matte Blanco, L’inconscio come insiemi infiniti,
Torino, Einaudi, 1981.
[8] Michail Bachtin, Estetica e romanzo, Torino, Einaudi,
1979.
[9] Ufficio aperto al pubblico ogni
pomeriggio, dalle 16h30 alle 18h30, al fine di “raccogliere attraverso tutti i
mezzi appropriati le comunicazioni relative alle diverse forme che è
suscettibile di prendere l’attività incosciente dello spirito” (André Breton, Entretiens, Bolsena, Erre emme, 1991). I
suoi lavori si protrassero dall’Ottobre 1924 al Marzo 1925, quando Breton ne
decise la chiusura a seguito delle divergenze intervenute con Artaud.
[10] Henri Béhar
& Michel Carassou, Le Surréalisme,
Paris, Librairie Générale Française, 1982, p.19.
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