articolo di Giancarlo Micheli pubblicato sulla rivista Cultura e prospettive (n. 26 - Gennaio-Marzo 2015)
Scrivere è sempre
guarire. Il vero scrittore sa ogni volta da quale male e, qualora ne assuma a
proprio arbitrio la responsabilità, sa anche come tenerlo celato al lettore; si
tratta di ciò che il magnanimo chiama ironia,
e colui che lo diventa serietà.
Qualora sia altro che
mera vanteria, grossolano ricamo di esistenze tramite il quale le generazioni
apprendono, secondo diacronici automatismi, a ricoprire rinnovate vergogne,
l’opinione per cui la specie umana costituirebbe un apice nell’evoluzione
biologica riposa sull’evidenza per cui in alcuni individui, la rarità dei quali
non debba poi essere usata per ascrivere loro colpe spettanti a follia o
perversione, persista la memoria dello stato ferino in cui vissero e si
moltiplicarono intere stirpi di genitori archetipici fino ai loro naturali e
legittimi. Se ne risultasse così corroborato, in qualche coscienza, l’aforisma
marxiano a stare al quale la società borghese sia il termine conclusivo della
preistorica[1], ciò non
accadrebbe, una volta ancora, se non per via di un artificio retorico, un
espediente tale da permutare le glorie dell’esperienza e della persuasione a
profitto di una condizionale tiepidità ottativa.
Da un luogo generico,
posto alla periferia dell’impero capitalista, dal quale osservare i segni della
sua decadenza, i disagi, le dolose nuisances
e le brame apocalittiche della sua civiltà in rovina, da una qualsiasi
sconosciuta località di mare si può oggi assistere a spettacoli naturalistici
di gabbiani che difendano dalle cornacchie la prole in virtù dell’istinto di
aver becchi a sufficienza per fare incetta di pesce arando le superfici di
acque litoranee inquinate da metalli pesanti ed innumerevoli cataboliti non
biodegradabili dei processi industriali; là si può acquisire chiara cognizione
di quali progressi abbia conseguiti la specie emancipatrice di se stessa ad un
tal grado da aver sostituito, non senza malizia, a fetide creature squamose un
oggetto del desiderio tanto immateriale da esser passibile di replicazione fino
alla virtualmente assoluta sterilità, attorno al quale fare ressa in miriadi di
mediocri soggetti, tutti competenti ad intraprendere il nulla. Quando poi, a
volo d’uccello, vorace o mansueto come lo si possa immaginare dal falco alla
colomba, si possedessero ali per ravvisare, al di là della cortina del tempo e
dei pregiudizi che ne sono scaturiti in spirito e materia, la scena del
medesimo crimine quale fu allestita sul patibolo con cui si aprì
giudiziariamente l’anno che avrebbe vista la dissipativa débâcle di Napoléon le pétit
e dei suoi imperiali comitati d’affari, tant’è che per qualche luna del
successivo il sole della Comune brillasse su Montmartre e Belleville, saremmo
precipitati dentro una voragine non meno abissale di quanta se ne dia per
attualità al gusto letterario vigente, allorché scorgessimo il nemico provato
dell’ordine civile, l’assassino seriale Jean-Baptiste Troppmann[2],
oscuro meccanico alsaziano che, settant’anni dopo aver avuta recisa la testa
dalla ghigliottina nella prigione de la Roquette, meritò onore postumo
resuscitando nel nome del personaggio protagonista di un romanzo noir[3]
che Georges Bataille scrisse poco prima dell’inizio della seconda guerra mondiale;
e supplementare meraviglia trarremmo esaminando le convulsioni di quel corpo
colpevole e malvagio tra le cinghie che lo avvincono, così diabolicamente
pervicace – come poterono attestare i Sardou, i Sue e i Dumas, tutti i
“romanciers de cours d’assises”[4]
che assiepavano la platea, quasi a confondersi alla folla inebriata dall’atto
conclusivo di quella ben congeniale cronaca –, così insanamente votato a
compiere il male che mancò poco riuscisse a staccare un dito al boia con un
estremo morso, in forza del quale non volle darsi pace fino all’istante in cui
la lama non lo ebbe tranciato e reso inerte.
Ai nostri giorni il
terrore è assurto in così gran voga, a scapito di oceaniche maggioranze
silenziose che vorrebbero soltanto starsene a vendere e comprare merci in santa
pace o di sagge minoranze che ambirebbero, eccellenti per falsa modestia, a
calmierare i bagliori dell’apocalisse per mezzo della censura, è asceso a tanto
nouvel éssort che suscitino a
malapena un sogghigno di condiscendenza le contrazioni mandibolari dello
sciagurato omicida che ricevettero apoteosi sulle colonne della stampa francese
a cavallo tra Secondo Impero e Terza Repubblica; basta paragonarle
all’efferatezza, sofisticata al punto da farsi sospettare contraffatta, la
quale oggi riscuote sui mezzi di comunicazione di massa quel minimo commercio
di brividi e rossori sottocutanei che imperturbabili strateghi dell’Occidente
cristiano meditano di stroncare sul nascere con le cachettiche forze
dell’ordine di cui sono i maîtres
d’opinion[5].
Si potrebbe dunque considerare alla stregua di un errore di ingenuità,
imputabile con ragione all’esuberanza adolescenziale dell’autore, se Isidore
Ducasse insisté a rimettere mano agli Chants
e a propugnarne un esito editoriale che rendesse loro giustizia, perseverante
finché l’editore Jean Baptiste Albert Lacroix, nei cui tipi erano già apparsi
romanzi di Victor Hugo e trattati di Pierre Joseph Proudhon, pubblicò il libro
alla fine d’estate del 1869, ma non se la sentì poi di distribuirlo nelle
librerie, nel timore dello scandalo che ne sarebbe sortito. Vorremmo quasi
valutare in termini di impazienza la situazione psicologica in cui versò il
figlio di un modesto ma faccendevole funzionario diplomatico presso la
Repubblica uruguaiana, avanti di risolversi a comporre un’opera superiore alla
prima nel tempo in cui Luigi Bonaparte venne spinto dalla storia, impigliatasi
nelle penne posticce di lui come un vento di macerie, al duello con l’equipiumato
Kaiser Wilhelm. Le Poésies videro la
luce in due fascicoli, ad aprile e a giugno del 1870, dopodiché furono
consegnate per almeno un ventennio ad una tacita ed unanime negligenza, sicché,
morto l’artefice in circostanze oscure mentre i prussiani assediavano ormai
Parigi, non più di un esemplare sopravvivesse mezzo secolo dopo, quando André
Breton sarebbe andato a copiarlo alla Bibliothéque Nationale affinché
rinascesse sulle pagine di Littérature[6].
Contro i segni di
reviviscenza che, pur nella parzialità delle particolari ricezioni, l’opera di
Lautréamont tuttavia incontrò nei commenti di lettori quali il moralista
cattolico Léon Bloy o il più celebre André Gide, le Poésies rimbalzarono come avrebbero fatto sullo stagno delle
convenzioni letterarie meteore che orbitassero fuori dagli spazi euclidei, e
non meri ciottoli destinati alle parodie della consistenza entro l’orizzonte
degli eventi dell’universale dissipazione entropica. E chi, oggi, non avrebbe
cuore a riconoscere costituisca un innegabile progresso nella malvagità il
fatto che, per provvedere alla liquidazione del vero e del bello che
perseverarono ad esprimersi liberalmente quanto fu concesso all’arte, la specie
abbia imparato a risparmiare il combustibile per darli alle fiamme e persino la
carta su cui imprimerli, in virtù del sardonico espediente di sottrarre alle
loro lusinghe le anime degli eventuali beneficiari, tutti ormai reclusi o in
via di internamento nei campi di prigionia mediatica su cui, in veste di
spettri di se stessi, applicano il proprio tempo alla produzione del
plusvalore? Laddove l’autore de Le sang
du pauvre ebbe sufficiente miopia per ravvisare nella prosa del
montevideano un “aliené qui parle, le plus déplorable, le plus déchirant des
alienés”[7],
mentre l’immoralista dell’aurora novecentesca, incursore nei sotterranei
vaticani non senza ossequio alle prurigini del mistero tipiche della
regressività borghese nel suo e nel nostro tempo, non poté venir sedotto altro
che dall’atmosfera altamente pederastica che vi respirò come in uno specchio[8],
una volta che i particolati delle prime deflagrazioni nucleari ebbero iniziato
a contaminare nembi e falde acquifere secondo dinamiche non meno complesse di
quelle di cui Lautréamont, al principio del quarto dei Canti, dette meticolosa descrizione relativamente al volo di un
branco di storni[9],
cosicché la poesia, in uno dei suoi irriproducibili stati di presenza, desse
ragione e senso alle traiettorie dello spirito a partire dalle pulsioni
elementari fino ai concetti astratti e finanche teoretici, Maurice Blanchot
riuscì, usando la lama binaria di una lucidità critica proporzionata al proprio
oggetto, a praticare il foro attraverso il quale caddero sul deserto dell’umana
coscienza – quello su cui Sade, senza mai evadere le mura del carcere, aveva
pronunciato il profetico anatema della più delirante rettitudine – alcuni
granelli di verità ciascuno dei quali basterebbe, da solo, a ben altro che a
misurare i periodi di decadimento delle scorie atomiche che il modo di
produzione capitalistico, tutt’oggi, non desiste di largire, a titolo di
consolidato e verificabile lascito, alle future generazioni.
La vicissitudine per
cui Les Chants de Maldoror vennero
stampati in esigua tiratura e poi sequestrati in fondo ad un magazzino di
Bruxelles, a causa delle paventate ritorsioni legali che un’ovvia pavidità fece
mettere in preventivo, non fu abbastanza efficace da occultare le sovversive
metamorfosi che in essi si erano generate, giacché un’opera letteraria rimane
viva grazie al concorso di sensibilità umane che saranno capaci, a dispetto
delle riluttanze peculiari ad ogni possibile milieu ideologico, di rilanciare la posta che in essa fu in gioco
al di là delle sue intrinseche designazioni assiologiche; eppure, le potenze
che non avrebbero comunque potuto scalfirla vanno acquistando, mediante l’esercizio
metodico una sovranità che, oggigiorno, non ha resipiscenze ad imporsi in
termini di supremazia sulla adeguata e comunicabile comprensione di se stessa. Nel
loro decorso storico cultura e scienza si costituiscono in specifiche
istituzioni, dotate di relativa autonomia rispetto alle strutture economiche di
volta in volta in auge, nondimeno è chiaro che fenomeni quali si lasciarono
conoscere nel principio nazista della Gleichschaltung
o nella nozione di dittatura del proletariato presso lo stalinismo, come pure a fortiori nei processi di
globalizzazione da cui è caratterizzata l’attuale fase di recrudescenza
imperialista del capitalismo, sono andati stringendo il pervasivo giogo
dell’impersonalità del codice sulla libertà del pensiero e dell’espressione.
Sarebbe prova di ingratitudine non voler rimarcare i pregi che, quale
consistente baluardo nella lotta che tuttora è in atto tra il morto feticcio
del valore di scambio dentro i ciclici avelli della permutabilità di merci e
significati, da una parte, e la vivente creazione del mondo, dall’altra,
l’opera di Ducasse aggiunge a quelli che al suo autore ne vanno riconosciuti
sulla stregua di criteri prettamente ermeneutici. Se, nella cattività
dell’universo diegetico che esacerbò lo spirito di Sade fino a procurare che
egli investisse l’uomo e Dio con un’energia negatrice enantiodromica e tale da
manifestarsi secondo gli effetti stilistici del puro odio, l’algido
suggerimento dell’eroina Clairwill al Duca di Saint-Fond, di sostituire alla
bramosia di prolungare voluttuosamente all’infinito i supplizi degli esseri che
vota alla morte con quella, più fattibile, di un maggior numero di omicidi[10],
se una tale impudica aberrazione non spaventa più l’uomo qualunque, è perché
questi è infine ammaestrato ad accondiscenderle fin nelle prassi della banalità
quotidiana, dove la complicità alla divisione del lavoro capitalistica,
negazione concreta delle risorse naturali e della vita che le valorizza, gli si
fa intendere come mero impiego di tempo libero, quand’anche non gli si
ammannisca sotto accreditati simulacri di liberazione strumentale.
La verità del
capitalismo è il serpente che divora se stesso nel cielo stellato
dell’interiorità soggettiva ed il cane che si morde la coda nell’inferno del
mondo; la consapevolezza espressa in tale sentenza per schiene diritte fu senza
dubbio nitida pure in Isidore Ducasse, sebbene si presenti un dilemma pressoché
insolubile a chi volesse appurare se qualcuno dei testi del divin marquis sia poi stato
effettivamente tenuto dalle sue mani di minorenne, in una delle numerose
edizioni clandestine che violarono i provvedimenti censori legalmente in vigore
fin oltre alla metà del secolo successivo.
Se le crudeli tecniche dell’Olocausto
furono di qualche utilità allo storico della letteratura Hans Rudolf Linder,
cosicché l’esegesi di lingua tedesca si arricchisse della disamina dove, nel
darla alle stampe nella cosmopolita Zurigo all’indomani dei lampi atomici su
Hiroshima e Nagasaki, individuava l’Apocalisse
di Giovanni come modello iconologico e simbolico degli Chants[11],
due anni più tardi, quando anche l’impero sovietico si allineò al primato della
forza annientatrice e fece aggio sull’equilibrio del terrore, Maurice Blanchot
accorciò solo di poche spanne le ombre che il crepuscolo del pensiero dovette
proiettare pure sul lucido capolavoro di Lautréamont, tant’è che l’osservazione
con cui intese correggere il collega elvetico, giunto a postulare un eroe del
racconto implicitamente al servizio di Dio, affermando sia “plutôt Dieu qui est au service de
Maldoror jusqu’à lui servir de miroir fabuleux où il peut contempler les vraies
dimensions de son épouvantable image”[12],
resta in attesa di un mezzogiorno solstiziale in cui la ragione non faccia
ombra a se stessa. Il Dio degli Chants,
al quale non è inconsueto rivoltarsi nel proprio vomito e fin nella più abietta
meschinità, è l’essere in cui la coscienza storica viene partorendosi principio
di organizzazione immanente del proprio impulso all’annichilimento, in cui il
male si fa immagine della realtà e realtà dell’immagine. Su di lui trionfò
l’ex-allievo del liceo di Pau cui il professor Hinstin, come ricorda una
testimonianza del compagno di classe Paul Lespés, raccolta da François Alicot
sul Mercure de France nel 1928,
inflisse la revoca della libera uscita domenicale per punirlo di aver scritto
un componimento scolastico nel quale non aveva trovata “une phrase où la pensée,
fait en quelque sorte d’images accumulées et métaphores incompréhensibles, ne fût
encore obscurcie par des inventions verbales et des formes de style qui ne respectaient
pas toujours la syntaxe”[13].
Non sarà, pertanto, da considerare un caso, non più di quanto esso autorizzi a
giudicare la storia umana un libro ben scritto, il fatto che l’anno delle Poésies coincise con quello della morte
di Ducasse, allorché egli, che già era salito al cielo per abbatterne l’abusivo
occupante e ridiscendere, assieme a lui, nelle tenebre terrestri, durante la
classica stagione dell’autunno passò la mano all’amore e al sogno dei viventi
sui quali, nella prossima maturità della primavera, risplendettero i giorni,
ancorché chiusi nel limite effimero della necessità storica contingente, perennemente
fulgenti della Comune.
Nel marzo del 1870, analizzando le
vicende dell’insuccesso editoriale degli Chants,
Isidore aveva scritto al banchiere Darasse, corrispondente del consolato di
Francia a Montevideo, tramite il quale egli riceveva l’assegno mensile per il
proprio sostentamento nella capitale: “Mais le tout est tombé dans l'eau. Cela me fit ouvrir les
yeux. Je me disais que puisque la poésie du doute (des volumes d’aujourd’hui il
ne restera pas que 150 pages) en arrive ainsi à un tel point
de désespoir morne, et de méchanceté
théorique, par conséquent, c'est qu'elle est radicalement fausse; par cette
raison qu'on'y discute les principes, et qu’il ne faut pas les discuter: c'est plus qu’injuste. Les gémissements poétiques de ce siècle ne sont que des
sophismes hideux. Chanter l'ennui, les douleurs, les tristesses, les mélancolies,
la mort, l'ombre, le sombre etc. c'est ne vouloir, à toute force, regarder que
les puérils revers des choses. Lamartine, Hugo, Musset se sont métamorphosés
volontairement en femmelettes. Ce sont les Grandes-Têtes-Molles de notre époque. Toujours pleurnicher. Voilà pourquoi
j'ai complétement changé de méthode, pour ne chanter exclusivement que l'espoir,
le calme, le bonheur, le devoir”[14].
Cos’è, dunque, che Ducasse definisce dovere,
e per giunta
in una sede tanto personalmente impegnativa qual è l’epistola al garante dei
suoi mezzi di sussistenza, deputata ad istigare reprimende ancor più sdegnose e
brucianti di quelle che al liceale erano toccate per bocca del severo professor
Hinstin? È la metamorfosi morale in atto nel suo pensiero quale sintesi delle
necessità della storia, dissolvimento della vita universale nel vivente
soggetto umano, creativo atto palingenetico della coscienza di specie, al quale
egli esorta in un dirimente passo del primo fascicolo: “Si l’on se rappelle la
vérité d’où découlent toutes les
autres, la bonté absolue de Dieu et son ignorance absolue du mal, les sophismes
s’effondreront d'eux-mêmes. S’effondrera, dans un temps pareil, la littérature
peu poétique qui s’est appuyée sur eux. Toute littérature
qui discute les axiomes éternels est condamnée à ne vivre que d'elle-même. Elle est injuste. […] Nous
n’avons pas le droit d’interroger le Créateur sur quoi que se soit. Si vous
êtes malhereux, il ne faut pas le dire au lecteur. Gardez cela pour vous”[15].
Dovettero essere le frasi che l’autore disseminò in
maniera quasi sistematica nei due fascicoli delle Poésies, a guisa di atti di sovvertimento dell’universo etico in
cui avevano vissuto tutti i personaggi dell’opera precedente, dovettero essere
sentenze pari alla succitata che spronarono Albert Camus, nel noto L’Homme révolté del 1951, alla confessione
di non percepire in esse altro se non “laborieuses banalités”, un “morne
conformisme”[16] il
quale, nell’animo incline all’indignazione dello scrittore di Algeri, dovette
apparire una sorta di contrappasso cui il tracotante giovinetto sarebbe incappato
a seguito del proprio velleitario titanismo di esordiente. D’altro canto, quasi
fosse sopravvissuto a se medesimo per convalidare persino ciò che Roger
Caillois fu ispirato ad argomentare nel redigere la prefazione all’edizione
delle Oeuvres complètes curata per la
Librairie José Corti nel 1946, laddove vi scrisse che “tout ce qu’on pourrait en
dire de plus exact, l’auteur l’a dit déjà, et dans cette oeuvre même”[17],
Lautréamont aveva aggiunto, nel secondo fascicolo, che “pour décrire le ciel,
il ne faut pas y transporter les matériaux de la terre. Il faut laisser la
terre, ses matériaux, là où ils sont, afin d’embellir la vie par son idéal.
Tutoyer Elohim, lui adresser la parole, est une bouffonnerie qui n’est pas
convenable. Le meilluer moyen d’être reconnaissant envers lui, n’est pas de lui
corner aux oreilles qu’il est puissant, qu’il a créé le monde, que nous sommes
des vermiceaux en comparaison de sa grandeur. Il le sait mieux que nous. Les
hommes peuvent se dispenser de lui apprendre. Le meilleur moyen d’être
reconnaissant envers lui est de consoler l’humanité, de rapporter tout à elle;
de la prendre par la main, de la traiter en frère. C’est plus vrai”[18].
L’ironia che aveva temperato la lotta di Lautréamont contro Dio, contro la
credenza pietrificata in dogma e consuetudine finché non si conobbe bene
all’infuori della negazione del peccato originale dell’esistenza, tale
stratagemma dello spirito, al momento in cui la guarigione presentisce l’inizio
della storia come autoconsapevolezza, diviene illimitata benevolenza, tanto
salubre e sovrabbondante da riversarsi pure sul male di cui trionfa. È così
lavata per sempre la macchia di sangue intellettuale che, fino ad allora, tutta
l’acqua dell’oceano non sarebbe bastata a sbiadire; e poiché i tragici eccitarono
“la pitié, la terreur, par le devoir”[19],
essi ora “ne primeront plus. Primera la froideur de la maxime!”[20].
Adesso “Elohim est fait à l’image de l’homme”[21],
e giacché “je ne connait pas d’obstacles qui passent la force de l’esprit
humain, sauf la vérité”[22],
da qui in poi “la poésie doit avoir pour but la vérité pratique”[23].
[1] “Mit dieser Gesellschaftsformation schließt daher die
Vorgeschichte der menschlichen Gesellschaft ab.” (“Con questa
formazione sociale si chiude dunque la preistoria dell’umanità.”) Karl Marx, Zur Kritik der politischen Ökonomie, Franz
Dunker, Berlin 1859.
[2] Jean-Baptiste
Troppmann (1849-1870) fu al centro di un caso di cronaca che ebbe vasta
risonanza mediatica: giudicato colpevole dell’assassinio di otto membri di una
stessa famiglia, venne giustiziato il 19 gennaio 1870.
[3] Le Bleu du ciel, Pauvert, Paris 1957
(scritto nel 1935; ed. it.: L’azzurro del
cielo, Einaudi, Torino 1969). L’editore del romanzo di Bataille,
Jean-Jacques Pauvert, fu anche colui che per primo ebbe l’ardire di una
pubblicazione non clandestina dell’opera di Sade, impresa che gli costò un
addebito per oltraggio al pudore ed una lunga serie di processi che si sarebbe
trascinata fino agli anni Settanta.
[4] Isidore
Ducasse, Poésies I, in Oeuvres complètes, Librairie José Corti,
Paris 1946; ed. it.: I canti di Maldoror
Poesie Lettere, Garzanti, Milano 1990, p. 422.
[5] Non è scrupolo
superfluo ricordare che in francese il termine maître designi tanto il maestro che il padrone.
[6] Il primo
fascicolo delle Poésies venne pubblicato
per la prima volta sul secondo numero della rivista surrealista Littérature, nell’aprile del 1919; il
secondo, sul numero successivo del mese di maggio.
[7] Léon Bloy, Le cabanon de Prométhée; articolo
pubblicato dalla rivista letteraria La
Plume diretta da Léon Deschamps, sul numero del settembre 1890.
[8] “La lecture de
Rimabud, du VIe Chant de
Maldoror, me fait prendre en honte mes oeuvres, et tout ce qui n’est qu’un
résultat de la culture, en dégoût. Il me semble que j’étais né pour autre chose.”
(“La lettura di Rimbaud, del VI Canto di
Maldoror, mi fa vergognare delle mie opere, mi disgusta di tutto ciò che
non è altro che un risultato della cultura. Mi sembra che fossi nato per altre
cose.”) André Gide, Journal, vol. 1:
1887-1925 (Mardi 28 novembre 1905), Gallimard, Paris 1996.
[9] “Les
bandes d'étourneaux ont une
manière de voler qui leur est propre, et semble soumise à une tactique uniforme et régulière, telle que
serait celle d'une troupe disciplinée, obéissant avec précision à la voix d'un seul chef. C'est à la voix de l'instinct que les
étourneaux obéissent, et leur instinct
les porte
à se rapprocher toujours du centre du peloton, tandis que la rapidité de leur vol les emporte
sans cesse au-delà;
en sorte
que cette multitude d'oiseaux, ainsi réunis par une tendance commune vers le même point
aimanté, allant
et venant sans cesse, circulant et se croisant en tous sens, forme une espèce de
tourbillon fort agité, dont la masse
entière, sans
suivre de direction bien certaine, paraît avoir un mouvement general d'évolution sur elle-même, résultant des mouvements
particuliers de circulation propres à chacune de ses parties, et dans lequel le centre,
tendant perpétuellement à se développer, mais sans cesse pressé, repoussé par l’effort contraire
des lignes environnantes qui pèsent sur lui, est constamment plus serré qu'aucune de ces
lignes, lesquelles
le
sont elles-mêmes d'autant plus qu'elles sont plus voisines du centre. Malgré cette singulière
manière de tourbillonner les étourneaux n'en fendent pas moins, avec une
vitesse rare, l'air ambiant, et gagnent sensiblement, à chaque seconde, un
terrain précieux pour le terme de leurs fatigues et le but de leur pèlerinage. Toi, de même, ne fais pas attention à la manière bizarre dont je
chante chacune de ces strophes.”
(“I branchi di storni
hanno un loro modo particolare di volare che sembra rispondere a una tattica
uniforme e regolare, come sarebbe quella di una truppa disciplinata che obbedisse con precisione
alla voce di un solo capo. È alla voce dell'istinto che gli storni obbediscono, e il loro istinto li porta ad avvicinarsi
sempre al centro del plotone mentre la
rapidità del volo li trascina
in avanti senza sosta; in modo
che questa moltitudine di uccelli, così riuniti da una tendenza
comune verso lo stesso punto
calamitato, andando e venendo senza tregua, circolando e incrociandosi in ogni
senso, forma una specie di turbine molto agitato la cui intera massa, senza seguire una
direzione veramente certa, sembra avere un movimento generale di evoluzione su
se stessa, che risulta dai movimenti particolari di circolazione propri a
ognuna delle sue parti, e nel quale il centro, tendendo perpetuamente a
svolgersi, ma incessantemente compresso,
respinto dallo sforzo
contrario delle linee circostanti che su di esso gravano, è costantemente più compatto di ognuna di quelle linee, che a loro volta lo sono tanto più quanto più
sono vicine al centro. Nonostante questo modo singolare di
turbinare, gli storni fendono l'aria circostante con rara velocità, e guadagnano sensibilmente, a ogni
secondo, un terreno prezioso per il termine delle loro fatiche e il fine del loro
pellegrinaggio. Tu, egualmente, non prestare attenzione alla maniera bizzarra
con cui io canto ognuna di queste strofe.”) Comte de Lautréamont, Les Chants de Maldoror, V, Genonceaux,
Paris 1890; ed. it. in I canti di Maldoror Poesie
Lettere,
Garzanti, Milano 1990, p. 286.
[10] Donatien Alphonse François de Sade, Histoire de Juliette, ou les Prospérités du vice (1801), Pauvert, Paris 1947;
ed. it. Juliette ovvero la prosperità del
vizio, Newton Compton, Roma 1993.
[12] “… piuttosto
Dio ad essere al servizio di Maldoror, sino a servirgli da prodigioso specchio
in cui egli può contemplare le vere dimensioni della sua spaventosa immagine.” Maurice Blanchot, Lautréamont
et Sade, Éditions de Minuit, Paris 1949; ed.
it. Lautréamont
e Sade, SE, Milano 2003, p. 140.
[13] “… una sola
frase in cui il pensiero, costruito con immagini accumulate e metafore
incomprensibili, non fosse reso ancor più oscuro da invenzioni verbali e da
forme stilistiche che non sempre rispettavano la sintassi”. François Alicot, À propos des “Chants de Maldoror”. Le vrai
visage d’Isidore Ducasse, in Le Mercure
de France, 1er janvier 1928.
[14] “Ma
non se n'è fatto niente. Ciò mi
fece aprire gli occhi. Mi dicevo che poiché la poesia del dubbio (dei volumi
di oggi non resteranno neppure 150 pagine) giunge a un tale punto di tetra disperazione, e di malvagità teorica, ne
consegue che è radicalmente falsa; per il motivo che vi si discutono i principi che non bisogna discutere: è più che ingiusto. I gemiti poetici di
questo secolo non sono altro che sofismi schifosi. Cantare la noia, i
dolori, le tristezze, le malinconie, la morte, l'ombra, il tetro ecc.,
significa voler guardare ad ogni costo soltanto il lato puerile delle cose.
Lamartine, Hugo, Musset si sono volontariamente trasformati in femminucce. Sono le Grandi-Teste-Frolle
della nostra epoca. Sempre a piagnucolare! Ecco perché ho cambiato
completamente metodo, per cantare esclusivamente la speranza, l'attesa, la calma, la felicità, il
dovere.” Isidore Ducasse, lettera a Monsieur Darasse del 12 marzo 1870, in
Oeuvres complètes, ib.; ed. it., ib.,
p. 492.
[15] “Se
ci si ricorda della verità da cui discendono tutte le altre, la bontà assoluta di Dio e la sua assoluta ignoranza del male, i sofismi crolleranno da soli. Contemporaneamente crollerà la
letteratura poco poetica che si è fondata su di essi. Ogni letteratura che discuta gli assiomi eterni è condannata a vivere solo di se stessa. È ingiusta. […] Noi non abbiamo il diritto d'interrogare il Creatore su niente. Se siete infelici, non bisogna dirlo al lettore. Tenetelo per voi.” Isidore
Ducasse, Poésies, I, in Oeuvres complete, ib.; ed.it., ib., p.
438.
[16] “Laboriose
banalità”, “cupo conformismo”. Albert Camus, L’homme révolté, Gallimard, Paris 1951; ed. it. L’uomo in rivolta, Bompiani, Milano
1957.
[17] “Tutto quello
che se ne potrebbe dire di più esatto l’autore l’ha già detto, in questa stessa
opera.” Roger Caillois, Préface
aux Oeuvres complètes, ib.
[18] “Per descrivere il cielo, non bisogna trasportarvi i materiali
della terra. Bisogna lasciare la terra, i suoi materiali, là dove si trovano, per abbellire la vita con
il suo ideale. Dare del tu a Elohim, rivolgergli la parola, è una buffonata sconveniente. Il modo migliore di essergli riconoscenti non è strombettargli
all'orecchio che è potente, che ha creato il mondo, che noi siamo dei vermi in confronto alla sua grandezza. Lo sa meglio di noi. Gli uomini possono fare a meno di insegnarglielo. Il modo migliore di essergli riconoscenti è consolare l'umanità,
ricondurre tutto ad essa, prenderla per mano, trattarla fraternamente. È più vero.” Isidore Ducasse, Poésies,
II, in Oeuvres complètes, ib.;
ed.it., ib., p. 466.
[19] “La pietà, il terrore, con il
dovere.” Isidore Ducasse, Poésies, II, in Oeuvres complètes,
ib.; ed.it., ib., p. 452.
[20] “Non avranno più il primato.
Avrà il primato la freddezza della massima!” Isidore Ducasse, Poésies, II,
in Oeuvres complètes, ib.; ed.it., ib.,
p. 464.
[21] “Elohim è fatto a imagine
dell’uomo.” Isidore Ducasse, Poésies, II, in Oeuvres complètes,
ib.; ed.it., ib., p. 464.
[22] “Non conosco ostacoli che
superino le forze dello spirito umano, tranne la verità.” Isidore Ducasse, Poésies, II,
in Oeuvres complètes, ib.; ed.it., ib.,
p. 454.
[23] “La poesia deve avere per scopo
la verità pratica.” Isidore Ducasse, Poésies, II, in Oeuvres completes,
ib.; ed.it., ib., p. 450.
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