IL
TEMPO CHE IL COLONIALISMO HA
FATTO
articolo di Giancarlo
Micheli pubblicato su Il Ponte - rivista di economia e cultura fondata da Piero Calamandrei (anno LXXI, n.10 - Ottobre 2015)
L’attuale
esodo di umanità afflitta che dall’Africa, reduce infelice degli stupri etnici
ed economici della foia colonialista, assedia nel presente la “fortezza Europa”[1]
con la calamitosa minaccia le cui proporzioni, in altre epoche, non si sarebbe esitato
a definire bibliche, dà la stura ad un succedaneo profluvio di opinioni da
parte di una compatta ed eteroclita falange di commentatori, ai quali le
vecchie e le nuove assiologie della dominazione ideologica garantiscano facoltà
di vendere cara, se non la propria pelle, almeno l’aria che ne scaturisce come
da vesciche gonfiate, nient’affatto dal ruach
giudaico o dal ki taoista, bensì dal
gas convogliato in condotte transcontinentali o transoceaniche, le quali disegnano
la geografia del mondo contemporaneo, ne tracciano le mappe delle psicologie
sociali – lo rammenti il lettore, e valuti se non sia il caso di osservare,
secondo la consuetudine invalsa relativamente a funerali di Stato ed altri
solenni lutti civili, un minuto di silenzio, ogniqualvolta venga comminato di
assistere al sadico spettacolo di uno zelante chiacchiericcio, tutto votato al
redditizio scopo di divagare con compita o esuberante sicumera. Far cadere un
velo di silenzio su tale ridda di discorde vanità, quand’anche possa non
apparir pietoso, è un atto salutare al benessere dello spirito, il quale
consiste nella ricerca della verità, unita alla bellezza ovunque sia possibile.
Ora,
al pari di quanto sarebbe consigliabile a chiunque sappia cosa fare della
democrazia, mi conterrò entro limiti specifici, così da affrontare il tema
sotto l’unica prospettiva che ritengo umanamente necessaria, quella della
poesia. Del fatto che il colonialismo occidentale, nelle sue varie tipologie
nazionalistiche, sia stato caratterizzato da un originario impulso predatorio
delle risorse dei popoli colonizzati e dei relativi territori ebbe precoce
consapevolezza un poeta le cui scelte politiche ed esistenziali sarebbero poi
state così tenacemente implicate nelle contraddizioni del suo tempo quanto agli
effimeri simulacri della persuasione sopra le ribalte mediatiche oggi in vigore
non sarà più concesso. Al principio degli anni Venti del secolo scorso, appena
ventiduenne, André Malraux lasciò la nativa Parigi per l’Indocina, con
l’intento di appropriarsi di qualche fregio delle sculture khmer da rivendere
ai collezionisti. Trovò quel che faceva al caso suo presso il tempio di Banteaï
Srei ma, colto in flagrante dalle autorità di polizia, venne condannato per
saccheggio di beni archeologici. Scontata la pena, decise di far ritorno a
Saigon per fondarvi, forte dei consensi guadagnati in patria in seguito al
dibattito giudiziario, un quotidiano, L’Indochine
enchainée, dalle cui colonne si fece feroce critico dell’amministrazione
coloniale e fiero assertore dei diritti degli autoctoni. Nel decennio che seguì
all’eclatante iniziazione ai fastigi della celebrità egli inanellò l’ispirata
trilogia orientale, il cui ultimo gioiello, La
condition humaine, gli valse un ormai non insperato premio Goncourt e la
conseguente consacrazione, sullo scorcio dell’annus horribilis che era iniziato con l’incendio del Reichstag e la
Machtergreifung. Ai tre romanzi
aggiunse un breve racconto in forma epistolare, La tentation de l’Occident, pubblicato nel 1926 dall’editore
Grasset, dove esprimeva, grazie agli strumenti dell’intuizione lirica, una
consapevolezza della concezione orientale del mondo che sarebbe vano pretendere
dagli odierni tecnocrati del capitalismo globale. Il personaggio del giovane
intellettuale cinese Ling, in viaggio di istruzione in Europa, vi scriveva al
proprio alter-ego e corrispondente, il francese A.D., impegnato in uno
speculare tour da Canton a Shanghai:
“l’idea stessa dell’esistenza individuale era così debole presso di noi che,
fino ai tempi della Rivoluzione, i genitori erano puniti assieme ai loro figli
per i reati che questi avevano commessi a loro insaputa. Le forme successive di
un’anima non hanno tra loro altro rapporto che quello che hanno la nuvola e le
piante che la sua pioggia fa crescere”[2].
E di quella civiltà millenaria, i cui fondamenti Ling ribadiva riposare non già
sul concetto di individuo quanto piuttosto su quello di identità collettiva, poiché
“affinare in se stessi la sensibilità della propria razza, andare
incessantemente, esprimendola, verso un piacere superiore, ecco la vita di
quelli tra di noi che voi chiamereste maestri”[3],
di tale antica cultura il giovane Malraux presagiva il vicino dissolvimento,
non a causa della volontà di sopruso peculiare al barbaro mondo giudaico-cristiano,
non della forza aggressiva delle sue personalità molteplici, tutte responsabili
di corroborare con le rispettive azioni la grandezza di un unico Dio che
ciascuna finge a propria immagine, bensì in forza di un’autentica decadenza
antropologica, della degenerazione, in atto tanto ad Oriente quanto ad
Occidente, nell’universalista società di massa di cui ogni membro, parassita
dell’organismo umano, mai avrebbe tollerata la sublime sensibilità del saggio
taoista o confuciano, se ne sarebbe al contrario ritratto con tanto ribrezzo da
scatenare su di sé un flagello di fuoco quale l’Onnipotente su Sodoma e Gomorra
pur di non lasciarsi contaminare da una così aliena perfezione. Del resto, il tòpos della lotta dell’uomo con la morte
ed il Leitmotiv del suicidio,
eminenti riflessi condizionati della psiche borghese, ritornano in maniera
ossessiva lungo tutti i romanzi della giovinezza malrauxiana: nell’avventuriero
Perken divorato dalla cancrena dentro al dedalo antropofago della foresta
annamita, nell’oppiomane Gisors, indimenticabile martire di un profetico
connubio di marxismo e confucianesimo, dal fornello della cui pipa una nube
densa e grigia aleggia sul massacro dei marciapiede di Shanghai, mentre attorno
si spande lo stesso tanfo di carbone e zolfo che oggi opprime le città
litoranee della Cina industriale, le avviluppa di compatte caligini in breccia
alle quali alcune avveniristiche pagode s’immergono nel cielo violetto
dell’oriente come in un sogno invertito.
Alla
metà degli anni Trenta, colui che si era cimentato con tempestività ed
efficacia nell’arte di esprimere “il discorso dell’altro nella lingua altrui”[4],
aveva accumulata sufficiente esperienza della vita sotto l’accezione borghese
da aver chiaro che l’Armata Rossa fosse l’unico baluardo in grado di arginare
l’onda lutulenta del militarismo nazista, in cresta alla quale sussultava il
vecchio e lordo cuore d’Europa. S’ingaggiò pertanto nel movimento degli
scrittori internazionalisti, fautori dell’amicizia franco-sovietica. In una
temperie spirituale che ormai presagiva gli imminenti inabissamenti della
civiltà, dinanzi alla platea di menti scelte convenute alla Mutualité per
ascoltare il suo infine autorevole resoconto sullo stato della letteratura e
della società sovietica, egli dichiarò:
Io non credo a qualche misteriosa
bellezza platonica che attraverso i tempi alcuni artisti privilegiati arrivano
ad attingere, ma ad un rapporto che si stabilisce tra le sensibilità e i
bisogni che esse hanno di essere espresse e, in tal modo, giustificate. Questo
problema sta al centro di tutto il pensiero artistico occidentale e si può dire
che l’arte della civilizzazione borghese gira più o meno attorno ad esso.[5]
Due
mesi prima, intervenendo presso il Congresso degli scrittori sovietici tenutosi
a Mosca nell’agosto del 1934, aveva detto che “l’arte non è una sottomissione,
è una conquista”, “la conquista dei sentimenti e dei mezzi per esprimerli”[6],
sentenze il cui fascino oggettivo arricchì l’antico genere aforistico in virtù
del contesto di passioni palingenetiche che la Storia avrebbe presto riannesse
al proprio corso, per somministrarle, appena oggi, in dosi stimolanti premature
nostalgie. I timori che, fin dai primi decenni del diciannovesimo secolo, un
liberale perspicace ebbe la schiettezza di paventare riguardo all’equivalenza
tra democrazia e dittatura della maggioranza quale si sarebbe instaurata nel
regime capitalistico[7],
andarono avverandosi sotto molte condizioni aggravanti, cosicché non era affatto
peregrina la tesi di chi, un secolo dopo, riscontrasse come l’unica libertà
concretamente concessa all’individuo fosse quella di opprimere se stesso
secondo le personali inclinazioni e l’indole genericamente persecutoria di
leggi e consuetudini. Al rientro in patria, pertanto, Malraux volle essere
caustico e schietto nell’estrapolare dal recente discorso moscovita un’immagine
suggeritagli dalle riflessioni su una vedette
della nascente società dello spettacolo, passibile già allora di un culto
pressoché ecumenico, e la volse così all’uditorio dei connazionali:
Esiste presso di noi un’arte
totalitaria, c’è davvero un artista che, se fosse in questa sala, potrebbe come
qualsiasi artista sovietico a Mosca, dire: “Voi mi conoscete, e mi ammirate
tutti, ciascuno alla sua maniera”, è Charlot. L’accordo degli uomini dinanzi ad
un’opera d’arte non si compie più in Occidente che nel comico e noi non
ritroveremo comunione reale altro che per ridere di noi stessi.[8]
Il
carattere di colui che, a pochi mesi di distanza dall’annessione hitleriana
della Renania, si accinse ad un secondo esordio, tra i clamori adesso
decisamente marziali del teatro di guerra spagnolo dove andò a girare il film
tratto dal suo romanzo L’Espoir, una
sorta di precursore istant movie
sull’eroismo internazionalista, lo destinava ad azioni tempestive ed intrepide,
sovente contraddittorie e persino ambigue, tant’è che, ancor prima di volare a
Madrid al comando di una squadriglia di bombardieri ottenuti su diretta
intercessione del Ministro francese dell’Aviazione, i quali avrebbero dato un
esiguo contributo alle deboli forze aeree del governo di Largo Caballero ma fornito
il profilmico degli apparecchi che la sceneggiatura prescriveva, egli era
ritornato sul tema dell’arte novissima, nella circostanza del Congresso
londinese dell’Association internationale des écrivains pour la défense de la
culture, stavolta per chiarire, in un registro altrimenti ponderato e loico, i
nessi teorici di lei con i pregiudizi della tecnica e la psicologia delle masse:
L’eredità culturale non è l’insieme delle
opere che gli uomini debbono rispettare, ma di quelle che possono aiutarli a
vivere. […] Ora, l’arte delle masse è sempre un’arte di verità. Poco a poco le
masse hanno cessato di andare all’arte, di incontrarla sulle pareti delle
cattedrali; ma oggi si riscontra che, se le masse non vanno all’arte, la
fatalità della tecnica fa sì che l’arte vada alle masse. Ciò è vero sia nei
paesi democratici sia in quelli fascisti o comunisti, sebbene non allo stesso
modo. Da trent’anni a questa parte ogni arte ha inventato i suoi strumenti di
riproduzione: radio, cinema, fotografia. Il destino dell’arte va dal capolavoro
unico, insostituibile, macchiato dalla sua riproduzione, non solo al capolavoro
riprodotto ma all’opera realizzata per la propria riproduzione a tal punto che
il suo originale non esiste più: il film. Ed è il film che incontra la totalità
di una civilizzazione, quello comico con Chaplin nei paesi capitalisti, tragico
con Eisenstein nei paesi comunisti, e presto guerriero nei paesi fascisti.[9]
Poco
oltre, nel testo che sarebbe stato pubblicato sulla rivista Commune a Settembre, quando
l’insurrezione di Barcellona e l’afflusso dei primi rivoluzionari
internazionalisti segnavano un apice del movimento rivoluzionario continentale,
Malraux precisava i criteri dirimenti del proprio antifascismo:
Io non dico che un’azione di
governo non possa esercitarsi nel senso degli elementi negativi o miserabili
delle masse, ma dico che l’artista non fa opera d’arte che quando ha incontrato,
lui, l’elemento positivo e creatore d’esaltazione. Come tutte le trasformazioni
capitali, quella della nostra civilizzazione inquieta l’artista perché essa gli
domanda delle scoperte totali, perché lo costringe al genio. Ma io credo che la
folla possa essere feconda per l’artista, perché l’artista non riceve da essa
che la propria potenza di comunione. […] Una civilizzazione è davanti al
passato come l’artista davanti le sue opere d’arte che l’hanno preceduto. Egli
si aggrappa a questa o a quell’opera dei grandi, al museo o in biblioteca,
nella misura in cui essa gli permette di meglio realizzare la propria opera.
Gli oggetti che vengono considerati belli cambiano, ma gli uomini e gli artisti
chiamano sempre bellezza tutto ciò che permette loro di esprimersi meglio, di
superare se stessi. L’uomo non è sottomesso alla sua eredità, è la sua eredità
che gli è sottomessa.[10]
L’umanesimo
attualista propugnato in tale passo giustificò nella cognizione di chi lo ebbe
enunciato la scelta che ai più parve un sorprendente voltafaccia, a molti un
tradimento in piena regola, allorché, al termine della guerra, una volta
operata la spartizione tra i due blocchi ideologicamente contrapposti del
capitalismo di Stato e del capitalismo tout
court, egli venne folgorato dalla rivelazione del nazionalistico paracleto che
gli si manifestò sotto le sembianze del generale de Gaulle, allo sfondo delle cui
masse patriottiche del Rassemblement du
Peuple Français sovrimpose dapprima la propria silhouette in occasione di comizi e raduni, per poi essere investito
dei ruoli governamentali di Ministro dell’Informazione ed infine della Cultura,
a più riprese fino al 1969, longevo nell’impegno di replicare iniziative audaci
e di forte impatto mediatico, sulla medesima stregua di quanto inaugurato
nell’anteguerra, sin dal 1931, quando aveva ideato, ad esempio, un’esposizione
di sculture gotico-buddiste e, recatosi personalmente in Pakistan a reperirvi
esemplari del sincretismo artistico sorto presso quei popoli soggetti alle
conquiste di Alessandro il Grande e poi di Mahmud di Ghazni, l’aveva quindi
fatta allestire presso la galleria della Nouvelle
Revue Française, sotto l’egida, allora, di Gaston Gallimard, editore
storico della sinistra borghese.
L’arte
sorgiva, quella che nasce dalle sensazioni che accompagnano il compimento di
una convalescenza e l’inizio di una guarigione, insegna alle donne e agli
uomini a vivere meglio. Nell’autunno del 1972, quando lo psichiatra Louis
Bertagna, che l’aveva in cura da prima degli scioperi del maggio 1968 e della
sconfitta di de Gaulle nel referendum dell’anno successivo, suggerì a Malraux
un periodo di degenza alla Salpetrière, egli combatté, in ventinove giorni, un
nuovo corpo a corpo con il tema decisivo della propria poetica. Ciò che scoprì
lo conosciamo oggi da Le miroir des
limbes, l’opera nella quale l’ortodossia dell’esegesi malrauxiana ha
fondati motivi di ravvisare l’estremo capolavoro. Nelle prime pagine egli
avvertì imperativo il bisogno di ritornare ad un soggetto già trattato negli
anni della prigionia, ne Les Noyers de
l’Altenburg, dove aveva narrato la devastazione causata dall’uso dei gas, il
bromuro di xilile nella fattispecie, sperimentato dall’esercito tedesco durante
le Grande Guerra contro le trincee russe sulla Vistola. Nel panorama desolato
che era apparso al protagonista una volta dissoltasi la lugubre nube, come il
riverbero degli ultimi raggi nel crepuscolo aveva brillato ancora il mito epico
della fraternità, mentre i soldati alsaziani rientravano alle loro linee con sulle
spalle i nemici sopravvissuti, incespicando tra i corpi delle vittime e la
vegetazione putrefatta o pietrificata.
L’ultima coscienza non ha niente
in comune con il ricordo dei nostri atti, né con la rivelazione dei nostri
segreti. Non si è la propria storia per se stessi. L’Asia ha numerose volte
presentito che il problema capitale dell’uomo è scegliere un’“altra cosa”. […]
Ciascuno articola il proprio passato per un interlocutore inattingibile: Dio,
nella confessione; la posterità, nella letteratura. Non si dà biografia che per
gli altri.[11]
In
quel denso testo saggistico, contraddistinto dalla mai banale sontuosità
peculiare al suo stile, Malraux esplorò i confini metafisici della volontà
creativa, affiorando al di là delle nebbie della rappresentazione come la luna
dal notturno preludio della propria sterile antichità, dove le immagini
dissolvevano l’una nell’altra attraverso gradienti delle sensazioni sempre più
tenui e prossimi al torpore definitivo, dal momento che “il cadavere è garante
del nulla. Perché questo nulla, contro il niente dell’impensabile, è l’ultima
forma della sopravvivenza. […] L’impensabile non è ciò che ci è nascosto. Esso
non implica la nostra impotenza, non implica NIENTE”.
Provato
dai lutti familiari e dalla malattia, egli dette l’impressione di un vecchio narcisista
e millantatore al presidente Nixon, allorché gli era stato indicato quale confidente
di Zhou Enlai e dello stesso Mao Zedong sin dai giorni de La comedie humaine e aveva dunque deciso di interpellarlo nel
frangente in cui si risolse a patteggiare con il governo cinese, così da produrre
le condizioni che avrebbero legato il debito americano alla struttura economica
installata in luogo del Celeste Impero, perno della diplomazia finanziaria su
cui stridono oggi i critici equilibri dell’imperialismo globale. A dispetto dei
segni lasciati nella memoria del trentasettesimo presidente degli Stati Uniti,
quasi certamente Malraux avrà comunque ricordate, senza poterle portare con sé nel silenzio perenne
cui sarebbe approdato da lì a poco, le frasi pronunciate da Lev Trotzky in una
conversazione di quarant’anni prima:
Gli Americani abbandonano sempre
di più la politica della porta aperta in Cina. Saranno spinti a prendere la
Cina puramente e semplicemente. […] La Cina colonia americana, la guerra con il
Giappone è inevitabile.[12]
Il
segretario di Stato Henry Kissinger, sebbene gli riconoscesse sufficiente
intuito per aver previsto un inevitabile riavvicinamento tra Cina e Stati
Uniti, avrebbe poi rimproverato al poeta del Miroir des limbes un’indole di bugiardo patologico, dedito ad
edificare il mito di una personale grandeur
piuttosto che a servire gli interessi di una politica razionale[13];
certo è che l’opera di lui ha tracciati sentieri sui quali ancora oggi chi lavora
a creare la coscienza di specie e la fraternità tra i popoli si incamminerà per
qualche tratto, e se egli guadagnerà una marginale apoteosi, che potranno magari
tributargli i seguaci della religione sincretista del caodaismo accogliendone
l’icona nel loro pantheon di Tay Ninh
assieme a Buddha, Laozi e Victor Hugo, lo stesso non accadrà per i burocrati virtuali
che calcano la scena di regime della mendacità tecnicamente organizzata
affinché il nulla abbia sovranità sui caratteri e i destini. Suscitando tuttora
una plausibile fiducia nei cuori schietti e nelle menti attente, egli ci
osserva dallo spartiacque della preistoria umana, prima del quale quanti ebbero
voce in capitolo poterono mentire con persuasione, laddove, da lì in poi, essi
hanno mentito soltanto per disciplina e conformismo.
[1] Ricorriamo qua,
con la debita ironia, ad un’espressione invalsa nella vulgata giornalistica,
con l’esplicita intenzione di alludere al contesto storico che ne conobbe,
dapprima, l’uso da parte della propaganda nazista durante la Seconda Guerra mondiale.
[2] André Malraux, La tentation de l’Occident, Grasset,
Paris 1926; le traduzioni dei testi citati sono a cura dell’autore
dell’articolo.
[3] Ibidem.
[4] Michail
Bachtin, L’autore e l’eroe. Teoria
letteraria e scienze umane, Einaudi, Torino 1988.
[5] André Malraux, La politique, la culture – discours, article,
entretiens 1925-1975 (presentés
par Janine Mossuz-Lavau), Gallimard, Paris 1996. Discorso pronunciato a Parigi,
il 23 Ottobre 1934, alla riunione di resoconto del Congresso degli scrittori
sovietici, pubblicato con il titolo L’Attitude
de l’artiste sul numero di Novembre 1934 della rivista Commune.
[6] Ibidem.
Discorso pronunciato al Primo Congresso degli scrittori sovietici, tenutosi a
Mosca dal 17 al 31 Agosto 1934, pubblicato con il titolo L’Art est une conquête sul numero di Settembre-Ottobre 1934 della
rivista Commune.
[7] Alexis de
Toqueville, De la démocratie en Amérique,
Gosselin, Paris 1835-1840.
[8] André Malraux, La politique, la culture – discours, article,
entretiens 1925-1975 (presentés
par Janine Mossuz-Lavau), Gallimard, Paris 1996. Discorso pronunciato a Parigi,
il 23 Ottobre 1934, alla riunione di resoconto del Congresso degli scrittori
sovietici, pubblicato con il titolo L’Attitude
de l’artiste sul numero di Novembre 1934 della rivista Commune.
[9] Ibidem.
Discorso pronunciato a Londra, il 21 Giugno 1936, al segretariato generale
allargato dell’Associazione internazionale degli scrittori per la difesa della
cultura, pubblicato con il titolo Sur
l’héritage culturel sul numero di Settembre 1936 della rivista Commune.
[10] Ibidem.
[11] André Malraux, Lazare – le miroir des limbes,
Gallimard, Paris 1974.
[12] André Malraux, La politique, la culture – discours, article,
entretiens 1925-1975 (presentés
par Janine Mossuz-Lavau), Gallimard, Paris 1996. Articolo pubblicato, con il
titolo Trotzki, sul quotidiano Marianne del 25 Aprile 1934.
[13] Henry Kissinger, The
White House Years, Little, Brown and Company, New York 1979.
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