un articolo di Giancarlo Micheli pubblicato in
Je chante pour passer le temps
Petit qu'il me reste de vivre
Comme on dessine sur le givre
Comme on se fait le coeur content
A lancer cailloux sur l'étang
Je chante pour passer le temps
Petit qu'il me reste de vivre
Comme on dessine sur le givre
Comme on se fait le coeur content
A lancer cailloux sur l'étang
Je chante pour passer le temps
Louis Aragon
Dinanzi
alla scena, resa tempestivamente virale dalle testate commerciali e rimbalzata
in men che non possa dirsi sulla palude mediatica in cui l’industria della
comunicazione di massa si specchia con sintomatico narcisismo e si immola, come
non sarebbe riuscito Isacco sotto la tremante lama paterna, alle subliminali
carezze della mano invisibile di smithiana memoria[1],
dinanzi alla rappresentazione del malore che coglie il primo candidato alla
presidenza americana appartenuto al genere femminile, nell’attimo in cui le
forze le vengono meno sulla soglia di una lugubre e catafalchesca vettura di
servizio a bordo della quale rifugia nel prendere commiato in anticipo sul
compimento cerimoniale della quindicesima commemorazione dell’attentato che costituì
il sigillo simbolico, la messianica icona, su cui l’apparenza della vita poté
essere insufflata – nei modi in cui il mito narra sia accaduto alla statua che
il laborioso talento di Pigmalione seppe foggiare agli albori dello stile
classico[2]
– nel giro di pochi fotogrammi che servono, tuttora, a documentare un crollo
dalle conseguenze epocali, preventivabili ed ormai in parte onerosa già
capitalizzate, dinanzi a tale sintetico dispendio di potenza narrativa come non
ravvisare i «caratteri dell’artisticità»[3],
i medesimi che Thomas Mann riconobbe nella pur resistibile ascesa di Adolf Hitler? Non vorremo pertanto dilungarci in disamine sui
teatrali esiti del suffragio universale nella patria storica della democrazia,
né rammaricare la mancata ascesa alla White House di una prima inquilina di cui
il mondo già pregustava il trionfo, neppure indugiare in tardivi panegirici
riguardo alla novità che un tale accadimento avrebbe denotato nel lessico del
potere, emancipatosi, durante la propria storia, da tanto maschilismo e
misoneismo quanto ne fu pertinente alla civiltà cristiana non meno che ad
altre. Con l’effetto, collaterale seppur nient’affatto aleatorio, di mostrare
come la divisione tecnica delle intenzioni e degli strumenti espressivi, qual è
invalsa nella “società dello spettacolo” presso la nazione che si è raffigurata
legittima erede della cultura greca e vessillifera dell’Occidente, abbia
deformato la prerogativa di realizzare «sogni fatti dall’uomo per chi è desto»[4],
la quale fu vivente in Omero e Sofocle, come in Apelle e Prassitele, secondo
quanto attestarono le rimostranze idealistiche di Platone e ribadì l’esegesi di
un Gombrich[5], solo
per citare una personalità autorevole del liberalismo novecentesco, ma si è
involuta, attraverso dinamiche quasistatiche ed infine impersonalmente
efficienti, fino a rispondere in pieno allo scopo di tenere nel sonno le
coscienze mentre la distruzione, che in esse ed attorno ad esse si prepara,
diviene, di giorno in giorno, meglio adeguata al testo apocalittico, con questo
risultato non del tutto vano ci soffermeremo invece sull’opera meritevole di
uno scrittore, nato a Baltimora nella seconda metà del diciannovesimo secolo ed
al quale un bizzarro esemplare di quel genere letterario che va sotto al nome
di “storia controfattuale”, forse non per caso meglio gradito oltreoceano di
quanto non sia nel Vecchio Mondo, ha assai di recente conferito, sebbene
postumi e non ricevibili ormai altro che in effigie, i medesimi onori
istituzionali che spettano oggi al boccaccesco Donald Trump. In un suo libro[6],
incluso in una serie dal titolo American
Empire, il quale reca mere assonanze fortuite con quello scelto dal massimo
esule dell’italica dissidenza per un suo celebre trattato di filosofia politica[7],
benché entrambi i ponderosi tomi riescano equamente laconici sulla quaestio leniniana, tra tutte le
possibili tuttora la meno retorica ed archiviabile, uno specialista del genere
di cui si è detto, tale Harry Turtledove, immagina che l’eroe del nostro breve
pezzo vinca l’agone elettorale del 1920 e divenga, così, il primo presidente
socialista degli Stati Uniti. Scegliendo di attenersi alla reale biografia di
lui, che nondimeno si può ancora oggi tentare di ricostruire, possiamo invece apprendere
come egli concorse, nel 1920, alla Camera dei rappresentanti e, trascorsi due
anni, al Senato, sempre in veste di esponente del Socialist Party of America,
ed uscendo sconfitto in entrambe le occasioni.
Upton
Beall Sinclair venne al mondo tredici anni dopo la conclusione della Guerra
Civile, nella capitale dell’unico Stato, tra gli originari che vantano il
titolo di essere emblematizzati in una delle tredici strisce della bandiera
dell’Unione, il quale abbia avuto per fondatore un uomo che professasse la
religione cattolica, George Calvert, primo barone Baltimore[8].
Non andremo oltre nell’indagine sulle specificità del milieu della nascita, una cui linea di sviluppo promettente
indurrebbe a soffermarsi sulla caratteristica del motto in italiano arcaico
iscritto sullo stemma del Maryland[9],
né ricorreremo ad obsoleti metodi biografici alla Sainte-Beuve se non per
riferire che il padre del Nostro fu un venditore di alcolici, che soccombette
ai postumi insalubri del proprio stesso commercio, e la madre una devota
osservante della Chiesa episcopale[10],
la quale protesse il figlio dalle inclementi vicissitudini familiari e lo
iniziò alla disciplina e all’astinenza. La vocazione per la scrittura si
rivelò, infatti, in giovane età ed egli non godé mai, pertanto, vita facile. Una
pulsione indomita ad affinare la propria conoscenza delle forme espressive,
proclive alla precoce conquista di uno stile che restituisse il genuino soffio
vitale, universalità nella particolarità, ai personaggi ed ai fatti narrati, lo
sollecitò al compimento di opere in cui la consapevolezza sociolinguistica dei
contesti e dei vissuti consente ai lettori di interrogarsi, oggi, su quale sia il
cammino che dall’intreccio delle radici storiche si dipana ed indica la mèta
della coscienza di specie: ciò che Sinclair fece sin dal primo capolavoro, Manassas[11],
un racconto della guerra di secessione i cui pregi non sono esauriti dal nitido
vigore con il quale vi sono rappresentati sia l’idioletto degli afroamericani sia
il forbito linguaggio delle classi dirigenti, né sarebbe applicazione di un criterio
meno che manierista ascrivere a guisa di mancanza il limitato impiego del
discorso libero indiretto, tale che i personaggi risultino in rilievo quasi
plastico, congeniale al registro epico, se è vero poi l’aneddoto riferito
dall’autore stesso in un’opera non meno felice, The Brass Check[12],
secondo il quale ad un veterano di Bull Run e di Gettysburg, che era stato fino
ad allora persuaso di non poter apprendere dai libri più di quanto non avesse
conosciuto per esperienza diretta, brillarono gli occhi quando ebbe voltata
l’ultima pagina ed esclamò: “Questa è la guerra, e pensare che non era ancora
nato!”. Correvano allora tempi ingenui a paragone della smaliziata sagacia
tecnica che contraddistingue le prassi dell’odierna industria editoriale,
sicché il quarto d’ora di notorietà cui avrebbe prestigiosamente alluso in un
celebre aforisma la massima vedette
della pop-art toccò anche all’autore di The
Jungle[13].
Questi, proprio in The Brass Check,
un memoriale, scritto alla fine della Grande Guerra – che, al di là
dell’Atlantico, dette avvio a nuove proiezioni imperialiste ed alla repressione
tramite la quale furono infiltrate e rese virtualmente incapaci di nuocere le
strutture organizzative della working class
–, dove intese denunciare la corruzione ed il cinismo allignanti nel
giornalismo non diversamente che nel “mondo letterario”, narrò così gli
antefatti dello scoop: «C’era uno
sciopero di schiavi salariati del cartello della macellazione a Chicago, ed io
scrissi per lo “Appeal to Reason” un volantino indirizzato a quei lavoratori in
lotta […]. Questo volantino fu sostenuto dai Socialisti del distretto degli
Scannatoi, e trentamila copie vennero distribuite tra gli scioperanti
sconfitti. Lo “Appeal to Reason” mi offrì cinquecento dollari come vitalizio per
il tempo in cui avrei scritto un romanzo sulla vita di quegli schiavi salariati
del cartello della macellazione; così andai a Packingtown, e vissi per sette
settimane assieme ai lavoratori, e ritornato a casa scrissi The Jungle»[14].
Si trattava, dunque, di un esperimento del genere di quelli che in Italia,
sebbene con la peculiarità di un ritardo storico che cumulava allora in mezzo
secolo e, oggi, assomma a qualche decade in meno soltanto per significare alla
massa dei consumatori dell’informazione globalizzata l’orizzonte di una
plausibile fine dei tempi, vennero postulati sotto l’etichetta della “conricerca”
negli studi di Renato Panzieri, Mario Tronti o Romano Alquati. Il romanzo destò
qualche scalpore, grazie al fiuto per gli affari dell’editore della Doubleday,
Page & Company, che lo pubblicò in volume, ed a quello del «New
York-Journal American», che ne curò l’uscita in appendice, cosicché cadde persino
all’attenzione dello stesso presidente, che era allora Theodor Roosevelt. La
polemica scaturitane spinse il Congresso ad alcuni emendamenti legislativi, che
regolarono le ispezioni degli enti preposti a vigilare sulla qualità e l’igiene
degli alimenti ma lasciò in sostanza mano libera agli imprenditori dello
strategico comparto produttivo per quanto atteneva alle condizioni d’impiego
della manodopera. La puritana caparbietà di Upton non lo fece desistere di
fronte alle intimidazioni delle quali il sistema da lui denunciato non ebbe
remore ad avvalersi. Quando, alla vigilia della carneficina imperialista in
forza della quale il Vecchio Continente si dannò l’anima per applicare alla
pratica dello sterminio l’organizzazione tecnica del lavoro sperimentata nel
Nuovo, uno dei maggiori critici letterari europei, Georg Brandes, si recò a
tenere un ciclo di conferenze negli Stati Uniti, questi dichiarò ai cronisti
che vi erano tre scrittori americani dei quali valutasse ragguardevoli le
opere: Frank Norris, Jack London e Upton Sinclair. L’indomani, sulle testate
che rilanciarono tale giudizio, la trinità consacrata dall’autorevolezza dell’autore
dei quattro ponderosi volumi di Main
currents in the Literature of the Nineteenth Century[15]
venne però unanimemente mutilata di una persona, la quale, neanche a farlo
apposta, coincideva con quella dell’autore di The Metropolis[16]
e The Money Changers[17].
Egli non si lasciò scoraggiare per questo, tant’è che ne colse l’occasione per
convincere il Brandes a scrivere la prefazione del suo nuovo lavoro, King Coal[18],
un’inchiesta sulle lotte sindacali dei minatori del Colorado, che uscì durante
le fasi cruente del conflitto. The Brass
Check, seguito a due anni di distanza, fu un assalto diretto contro
l’industria editoriale, il cui campionario di meschinità, quale vi era
illustrato con equanime acribia, può essere assunto a base da cui desumere la
potenza mistificatoria dell’odierna, e venne dato alle stampe assieme ad una
nota introduttiva di Romain Rolland, un altro scrittore che dedicò la carriera
a promuovere pacifismo e giustizia sociale, prendendosene tutti i necessari
rischi politici, cosa che verosimilmente contribuisce ad eclissare la memoria
di entrambi nella congiuntura di pavidità e sconsolatezza che contraddistingue
l’odierno panorama intellettuale, dietro le cui alture, ormai impudicamente
artificiali o tutt’al più vagamente reminiscenti della natura che occultano con
mezzi mimetici, non emergono, fino a prova contraria, segni di solidarietà
attorno ai quali accumulare un sentimento ed un ingegno internazionalisti. Non
gettò la spugna Sinclair, neppure allorché, si era nel pieno della Depressione
degli anni Trenta, decise di accettare la candidatura offertagli dal Partito
Democratico per competere alla carica di Governatore della California. Così, in
una lettera a Norman Thomas, che in rappresentanza del Socialist Party of America
aspirò alla presidenza dell’Unione in ben sei consultazioni consecutive, dal
’28 al ’48, Sinclair giustificò retrospettivamente la scelta che gli era valsa
la scomunica da parte della Terza Internazionale: «Il popolo americano
accetterà il Socialismo, ma non ne accetterà l’etichetta. Io ho sicuramente
provato ciò nel caso dell’EPIC. Concorrendo come socialista presi 60.000 voti,
e concorrendo con lo slogan ‘End Poverty in California’ ne presi 879.000. Penso
che dobbiamo semplicemente riconoscere il fatto che i nostri nemici hanno avuto
successo nel diffondere la Grande Bugia. Non serve a niente un attacco
frontale, è molto meglio aggirarli»[19].
Perseverò, dunque, ad essere una spina nel fianco del capitalismo che si venne
intanto globalizzando, senza recedere finché non si spense all’età di
novant’anni in una casa di riposo del New Jersey.
Ai
nostri giorni di esemplare viltà, le proclamazioni a mezzo stampa di scandali,
vuoi che riguardino la fraudolenta natura del regime economico il quale pur
tuttavia viene rappresentato sotto le sembianze della durevolezza, relativa
alla potenza d’illusione dispiegata, e finanche dell’immutabilità, oppure che
ineriscano alle condizioni dell’estrazione del plusvalore progredite ad un
livello di sopruso e violenza impensabile all’interno della propria inconcussa
amoralità, si susseguono in tempo cosiddetto “reale”, ciascuna permutabile e
tale da rimuovere nelle coscienze l’intera serie delle precedenti, cosicché sia
possibile ed addirittura remunerativo, dopo un calcolabile periodo di latenza,
riesumarle alla stregua di subliminale parodia dell’eterno ritorno
dell’identico, finché non sia fatta della verità menzogna, come già da oltre un
secolo alcune menti illuminate hanno concepito non senza aggravio di dolore a
sé stesse. Sul palcoscenico principale della comunicazione di massa, attorno al
quale tutti gli altri sono disposti secondo quanto istruisce un capillare
addestramento alla passività e alla riproduzione tecnica dei simulacri della
vita, le maschere del potere ripetono un canovaccio mandato a memoria, spalla a
spalla con i loro docili complici e deuteragonisti. Cionondimeno, come mostrano
le appassionate tribolazioni cui si espone Allan Montague, il protagonista di Manassas, nel tentativo di liberare un
bracciante negro mentre il Paese, tra la ridda delle invettive e delle colluttazioni
cui non si astengono i più insigni notabili e rappresentanti delle istituzioni,
scivola verso la Guerra Civile, la letteratura dell’avvenire, nata per un
popolo che saprà infine abitare un mondo senza confini né ghetti, scompiglierà
le false coscienze e sussurrerà alle generazioni le parole d’amore che, lungo
la storia, hanno atteso fino ad oggi.
[1] «[…] he [every individual] intends only his own gain,
and he is in this, as in many other cases, led by an invisible hand to promote
an end which was no part of his intention.» Adam Smith, An Inquiry into the
Nature and Causes of the Wealth of Nation, London, W. Strahan and T. Cadell, 1776, vol. II, Book IV,
Chapter 2, p.35. «[…] egli [ogni individuo] mira solo al suo proprio guadagno ed è condotto da
una mano invisibile, in questo come in molti altri casi, a perseguire un fine
che non rientra nelle sue intenzioni.» Adam Smith, La ricchezza delle nazioni, Roma, Newton
Compton, 1995.
[2] «Interea niveum mira feliciter arte sculpsit ebur formamque
dedit, qua femina nasci nulla potest, opersique suis concepit amorem. Virginis
est verae facies, quam vivere credas et, si non obstet reverentia, velle
moveri: ars adeo latet arte sua. Miratur et haurit pectore Pygmalion simulati
corporis ignes.» («Intanto con arte mirabile scolpì un blocco di niveo avorio e
gli dette forma tale che nessuna donna possa nascere con una eguale, e si
innamorò della propria creazione. Essa aveva l’aspetto di una vera fanciulla, che
avresti creduto vivente e desiderosa di muoversi, se non l’avesse impedita il
pudore: a tal segno l’arte sapeva dissimularsi grazie al suo talento. Rimase
ammirato Pigmalione ed arse di passione per quel corpo fittizio.») Publio
Ovidio Nasone, Metamorphoseon, X,
247-253.
[3] «Ich sprach von
moralischer Kasteiung, aber muß man nicht, ob man will oder nicht, in dem
Phänomen eine Erscheinungsform des Künstlertums wieder erkennen?» («Io parlo di mortificazione morale, ma non si
deve, che piaccia o no, riconoscere in questo fenomeno i caratteri
dell’artisticità?») Thomas
Mann, Bruder Hitler, Paris,
Société Néerlandaise d’Editions, 1938.
[4] Platone, Sofista, Milano, BUR, 2007.
[5] E.H. Gombrich, Art and Illusion – A study in the psychology of pictorial representation,
London, Phaidon Press, 1960.
[6] H. Turtledove, American Empire: Blood and Iron, New York, Del Rey Books, 2002.
[7] Michael Hardt e Toni Negri, Empire, Cambridge MA, Harvard University Press, 2000.
[8] George Calvert (1579-1632), fu segretario di Stato sotto
Giacomo I Stuart e ricevette dal successore di lui, Carlo I, la patente per
acquisire il possedimento coloniale attorno alla baia di Cheasapeake che
sarebbe divenuto, nel 1788, il settimo Sato ad aderire all’Unione.
[9] “Fatti maschii, parole femine”.
[10] La Chiesa episcopale degli Stati Uniti d’America recidette i
legami con l’Anglicana al tempo della Rivoluzione di Cromwell e può, dal punto
di vista dottrinale, considerarsi in una posizione intermedia tra cattolicesimo
e protestantesimo.
[11] Upton Sinclair, Manassas; a novel of the War, New York,
Macmillan Company, 1904.
[12] Upton Sinclair, The Brass Check; a Study of American
Journalism, Pasadena CA, published by the Author, 1919.
[13] Upton Sinclair, The Jungle, New York, Doubleday, Page
& Company, 1906. Questo è l’unico titolo
dello scrittore di Baltimora che sia oggi disponibile in traduzione italiana: trad.
Rosa Giovanna Orri, La giungla,
Bologna, Gingko edizioni, 2011; trad. Mario Maffi, La giungla, Milano, Net, 2003.
[14] «There was a strike of the wage-slaves of
the Beef Trust in Chicago, and I wrote for the "Appeal to Reason," a
broadside addressed to these strikers […]. This broadside was taken up by the
Socialists of the Stockyards district, and thirty thousand copies were
distributed among the defeated strikers. The "Appeal to Reason"
offered me five hundred dollars to live on while I wrote a novel dealing with
the life of those wage-slaves of the Beef Trust; so I went to Packingtown, and
lived for seven weeks among the workers, and came home again and wrote "The
Jungle".» Upton Sinclair, The Brass Check; a
Study of American Journalism, Pasadena CA, published by the Author, 1919, p. 27.
[15] Georg Brandes, Hovedstrømninger
i det 19de Aarhundredes Litteratur, København, Emigrantlitteraturen, 1872-5 (Main currents in the Literature of the Nineteenth Century, New
York, Macmillan Company, 1901-5); fu l’opera più ambiziosa del letterato danese
e quella che divenne con il tempo la più nota, sebbene le origini ebraiche di
lui, i sospetti di ateismo e l’anticonvenzionalità delle tesi costassero dapprima
in patria un qual certo ostracismo, tant’è che la diffusione di essa giunse
solo in seguito, grazie alle edizioni tedesca (1894-6) ed inglese (1901).
[16] Upton Sinclair, The Metropolis, New York, Moffat, Yard & Company, 1908.
[17] Upton Sinclair, The
Money Changers, New York, B.W. Dodge & Company, 1908. In questo romanzo, che era il sequel del precedente The Metropolis, l’Autore espose una
spietata critica alle cupole finanziarie di Wall Street, tra i cui personaggi
al lettore d’inizio Novecento non era difficile veder adombrato un magnate del
calibro di un John Pierpont Morgan.
[19] «The American People will
take Socialism, but they won't take the label. I certainly proved it in the
case of EPIC. Running on the Socialist ticket I got 60,000 votes, and running
on the slogan to "End Poverty in California" I got 879,000. I think
we simply have to recognize the fact that our enemies have succeeded in
spreading the Big Lie. There is no use attacking it by a front attack, it is
much better to out-flank them.» Lettera di Upton Sinclair a Norman Mattoon Thomas del 25 settembre 1951.
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