Il Grandevetro (trimestrale di immagini, politica e cultura)
La Storia, soprattutto a
guardarla con occhi vigili e spalancati, quali se ne dischiudono, a guisa di
prodigiosi fiori d’innocenza sotto l’erba delle ciglia d’ogni nuova
generazione, è una decrepita e macilenta etera, gravida di crimini immani e manifesti,
che ammicca sul ciglio delle strade maestre ai prosseneti di una personale
sequela di complementari e reconditi. È comune fortuna che il fuoco dell’amore
ancora divampi in quest’inferno. Manca ormai un ristretto giro d’orbite, le
quali si conteranno sulle dita di due mani a patto che colgano intanto l’una
dall’altra una carezza e un graffio, avanti sia trascorso un secolo da quello
che i documenti della protratta infanzia capitalistica, fase suprema della
preistoria dell’umanità, pongono in breccia alla cosiddetta Grande Depressione.
In un solo giorno, il giovedì 29 ottobre del 1929, le cedole di credito che
rappresentavano poc’anzi l’equivalente d’una virtuale opulenza e d’uno schizofrenico
dispendio, non valsero la carta su cui erano stampate, destino entropico
dell’economia pseudo-darwiniana d’una millenaria eredità necrofaga; ne
seguirono tali prodigi, in miseria e nequizia, che non se ne uscì altrimenti
che con il vile ricorso all’ecatombe della guerra mondiale. Tristemente facile
l’analogia con le vicissitudini attuali, sicché se ne debba concludere che
quell’apparente uscita indichi ancora adesso l’entrata ad un più profondo
abisso. Era trascorso poco più di un mese da quell’epifania contabile del cannibalismo
finanziario, che sarebbe andata depositando i propri fetidi crismi sulla vita
al pari di quanto accade di nuovo, tant’è che i simulacri predittivi di cui fa
appannaggio la scienza borghese vi rivelassero, già allora, l’intima natura di
feticci atavici e sanguinolenti, era trascorso forse non invano quel ciclo
lunare, quando dalla Librairie José Corti, in rue de Clichy, tra la Gare Saint
Lazare e Pigalle, venne licenziato per la stampa quello che sarebbe stato
l’ultimo numero de “La Révolution surréaliste”, il dodicesimo dell’intera
serie, giunta in quel frangente, fatidico non meno di altri che lo precedettero
e lo avrebbero seguito, al quinto anno. Sotto le impronte di sette coppie di
labbra femminili che stanno a guisa d’aferesi concreta al Second manifeste du surréalisme, firmato da André Breton a pagina
17 (diciassette, come l’Arcano maggiore delle Stelle), invano l’odierno cultore
della materia ricercherebbe un estratto dalla rivista “Annales
Médico-psychologiques”, escusso, nella fattispecie, dal secondo tomo
dell’ottantasettesima annata dell’organo dei gallici alienisti, il quale venne
invece anteposto, in luogo d’epigrafe, all’edizione in volume destinata alle
rotative da lì a breve, per i tipi delle Éditions Kra, trai quali fu già
disponibile alla fine di marzo del 1930. Breton, alle spalle l’apprendistato
clinico alla Salpetrière ed ormai navigato tra i flutti della contesa
ideologica, scelse di riportare la petizione che l’insigne psichiatra Paul
Abély aveva rivolto, tramite le prestigiose colonne dell’ippocratica testata, a
chi di dovere, affinché fossero adottati i provvedimenti acconci a reprimere
tutta una seria di aggressioni subite dai colleghi nell’esercizio delle loro
funzioni terapeutiche per mano di coloro stessi cui le prodigavano. Il luminare
si era spinto ad un atto tanto assertivo da profilarsi alla cognizione
personale nei termini d’un civico ardimento in piena regola, laddove,
addebitando la causa delle proditorie violenze alle istigazioni contenute in un
testo che «circolava liberamente tra le mani di altri alienati», deplorava
apertamente la rivista letteraria colpevole di averlo pubblicato, il 25 maggio
del 1928: “La Nouvelle Revue Française”, che egli non avrebbe esitato, qualora gli
fosse stata concessa la libertà di esprimersi nel linguaggio egemone tra gli
italici odierni, a tacciare di “radical chic” o molto peggio. L’esimio
professionista, comunque, bruciava le tappe sulla retta via, lungo la quale correva
a perdifiato per fare a tempo ad aggiungere l’ultimo respiro ad un coro che
pregustava oceanico, dando alla propria delatoria diffida il titolo Légitime défense. D’altronde chi abbia
considerato con la debita cura la rapsodica diegesi dell’opera in questione, Nadja, sa che in essa affiora,
cristallino nell’ordine della trasparenza, il profilo della musa surrealista
κατ’εξοχήν, proprio per non dire “per eccellenza”, colei che, a tutta prova, è
necessario proteggere dal discorso subordinato ad una logica tanto anodina da
assurgere, nel prossimo avvenire dell’inversione deontologica, quale sarebbe stata
praticata, ad esempio, dalla psichiatria nazista – non più guarire, bensì
sopprimere le «lebenunwertes Leben», «vite inadatte alla vita» –, fino al
nefasto genocidio taylorista. Pertanto, sarà una sorpresa per pochi, sebbene
non minore meraviglia per ciascuno, che il Secondo
manifesto del surrealismo, proprio nel centenario di una precedente disputa,
nota come «battaglia di Hernani», avendo opposto classici e romantici a
proposito dell’omonimo dramma di Hugo, rivendicasse l’esistenza di un «certo
punto dello spirito da dove la vita e la morte, il reale e l’immaginario, il
passato e il futuro, il comunicabile e l’incomunicabile, l’alto e il basso
cessano di essere percepiti contraddittoriamente» ed al quale aderiva
nell’unico modo in cui sarebbe stato ancora possibile scongiurare la
catastrofe: «permettere all’immaginazione dell’uomo di prendere su tutte le
cose una rivincita eclatante, ed eccoci di nuovo, dopo secoli di domesticazione
dello spirito e di folle rassegnazione, a tentare di liberare definitivamente
quest’immaginazione attraverso il lungo, immenso, ragionato sregolamento di
tutti i sensi ed il resto», la rivoluzione internazionalista, tra l’altro.
Perché, come Breton precisava poco oltre, «noi pensiamo di aver fatto sorgere
una curiosa possibilità del pensiero, che sarebbe quella della sua messa in
comune», per ribadire che in quanto alla «nostra adesione al principio del
materialismo storico… non c’è modo di giocare su queste parole. Che essa non
dipende che da noi», sebbene in rue Colonel-Fabien i quadri del PCF, persuasi
che se si è marxisti non si abbia bisogno di esser nient’altro, lo convocassero
per metterlo alla prova e richiedergli un rapporto sulla situazione italiana,
sottolineando non avesse ad appoggiarsi altro che su fatti statistici
(produzione dell’acciaio etc.) e soprattutto non all’ideologia, proprio mentre
il loro piccolo padre sovietico si occupava d’imporre ai gemelli transalpini la
reintegrazione nel comitato centrale di quel Nicola Bombacci che sarebbe stato
leale scudiero, ma del duce, e fino alla catabasi di Dongo. I partiti comunisti
fecero come volle Stalin, cosicché il popolo dalle Alpi alla Sicilia non sia
l’unico a patire il fascismo ancora oggi, sotto le nuove spoglie. Se il
manifesto del 1929 domandò dunque «l’occultamento profondo ed autentico del
surrealismo», ciò avvenne poiché «è all’innocenza, alla collera di alcuni
uomini a venire che spetterà di far scaturire dal surrealismo ciò che non può
mancare d’essere ancora vivo, di restituirlo, al prezzo d’un assai bel
saccheggio, al proprio scopo»; pertanto «l’uomo che s’intimidirebbe a torto
dinanzi a qualche mostruoso fallimento storico, è ancora libero di credere alla
propria libertà. Egli è maestro a sé stesso, a dispetto delle vecchie nubi che
passano e delle forze cieche che seguono di conserva. […] La chiave dell’amore,
che il poeta diceva d’aver trovata, anche lui la cerchi bene: ce l’ha. Non sta
che a lui elevarsi al di sopra del sentimento passeggero di vivere
pericolosamente e di morire. Che egli usi, a dispetto di tutte le proibizioni,
l’arma vendicatrice dell’idea contro la bestialità di tutti gli esseri e di
tutte le cose e che un giorno, vinto – ma solo se il mondo è mondo – riceva la
scarica dei loro tristi fucili come un fuoco a salve».
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