mercoledì 22 luglio 2020

Improvviso su alcune cronache di estetica

un racconto breve di Giancarlo Micheli

pubblicato sulla rivista l’immaginazione (Anno XXXVI, n.317, maggio-giugno 2020)




Il poeta canta sonetti a Tiana

Vladimir Majakovskij

 

«Nell’era dell’intelligenza artificiale e dei sistemi di riconoscimento biometrico, l’arte autentica e sorgiva, non certo le imbrattature di emuli ed epigoni, prefigura lo scaricamento della coscienza umana sull’ecosistema entro cui compie il processo di riproduzione. Così va interpretata la prassi, oggi comune, degli interventi effimeri nei contesti urbani, dove reclama una specifica extraterritorialità dissimulandosi sotto etichette all’apparenza via via anonime, quasi vi tentasse l’anacronistica resurrezione di un’opera acheropita. Dunque, la soggettività dell’individuo futuro, rispetto alla quale l’artista rimane indice antropologico e, in casi fortunati, beniamino della vita, sarà progressivamente trascritta nell’universo materiale, finché non vi si dispieghi in creatività virtualmente impersonale, pienamente fruibile alle dinamiche spontanee della valorizzazione».

Una noia mortale queste conferenze, non c’è che dire, pur dovendo riconoscere che gli argomenti dibattuti non manchino d’interesse. Stavolta, il pretesto per congedarmi in anticipo venne offerto dal ricordo di un graffito che mi era capitato di notare a poca distanza, sul muro d’una fabbrica abbandonata, diruto ed avvolto di farinelli e piantaggine. Sul calcestruzzo nudo, qualcuno ha tracciato l’immagine frontale d’un volto, con inchiostro nero. La forma risulta dalla composizione di svariate macchie, le quali replicano un identico motivo. La preziosità del tempo, qual è norma valutare al tasso dei futures d’ultima emissione, vieta ogni eventuale velleità di descrivere di che genere di capolavoro si tratti. Avrei potuto, suggerirete voi, staccarlo con una sega a disco, come ebbe già l’intraprendenza di fare, in circostanze simili, un commerciante d’un quartiere palestinese di Betlemme; ovvero, dopo avervi applicato un foglio cosparso di resine adesive, avrei potuto strappar via una pellicola di conglomerato tanto sottile da portarmela a casa avvolta sotto al braccio, come già alcuni luminari del più antico ateneo dell’Occidente ebbero l’estro. Ci pensai seriamente, credetemi. Immaginai persino di rapire la mia musa e condurla là, alla stessa stregua, si parva licet, di quel che dev’esser balenato in mente al principe Mohammad bin Salman al Sa’ud, quando gli accadde di impossessarsi di un’opera leonardesca dalla discussa attribuzione. Fatto sta che non è per amore della bellettristica se ho fatto ritorno a quel luogo anche in sogno. Diventa plausibile, però, soltanto adesso che io abbia là un appuntamento; ma con chi? Debbo confessare non siano molte né significative le analogie tra il mio reperto d’arte di strada ed il Salvator Mundi, che gli esperti incaricati dal proprietario accreditarono alla palindroma mano del genio di Vinci, innanzitutto in base alla scoperta, sotto ai pimenti di ritocchi posteriori, di un cosiddetto pentimento: l’autore sarebbe stato incerto sull’esatta iconografia da adottare per la mano benedicente del redentore, tant’è che il pollice compariva sulla tavola sdoppiato, sia in posizione flessa che distesa. Ciò parve ragione sufficiente per discernere quel particolare dipinto quale originale entro la serie di circa una ventina di copie di bottega nelle quali si sarebbero cimentati Marco d’Oggiono, il Salaì ed altri allievi del Maestro. Una volta provveduto al restauro, l’icona rinascimentale vide levitare le quotazioni, passando dapprima dal catalogo di un sindacato di mercanti statunitensi a quello dello svizzero Yves Bouvier, poi da questi al russo Dmitrij Rybolovlev, finché non attinse l’empireo presso la sede newyorchese di Christie’s, quando un emissario del principe saudita se lo aggiudicò per una cifra che rasentava il mezzo miliardo di dollari, prezzo mai prima pagato per un’opera d’arte. Solo in seguito, alcuni critici constatarono l’incongruenza della tecnica rudimentale impiegata nella rappresentazione della sfera armillare che il Nazareno regge nella sinistra: non compare cenno degli effetti di rifrazione della luce attraverso il cristallo, i quali pure avrebbero dovuto ispirare la mente perspicua nell’osservare i fenomeni della natura quant’altre mai, a fortiori ben sette decenni dopo i virtuosismi raggiunti da Van Eyck con il Ritratto dei coniugi Arnolfini. Certi esegeti vollero spingersi allora ad ipotizzare che la presenza del doppio pollice nella mano destra non andasse affatto ascritta ad una qualche titubanza, bensì all’intenzionale spostamento sull’arto opposto della distorsione ottica che saremmo legittimati ad attenderci presso quello che sostiene invece il globo, secondo un procedimento che risulterebbe congruente sia al carattere trascendente del soggetto sia alla propensione dell’artefice verso il mistero e l’ineffabile. Poiché la pulitura del dipinto si era risolta, non senza una qualche sbrigatività, nella cancellazione della falange parallela all’indice e all’anulare, in modo che si ripristinasse, foss’anche casualmente, il gesto tramite cui il clero ortodosso impartiva il segno della croce prima del raskol, lo scisma che a metà del Seicento fece sanguinosamente vacillare l’autocrazia zarista, in anticipo persino sulla rivolta di Pugačëv, il dito omesso potrebbe aver avuto un certo momento nel determinare la decisione del collezionista di Perm affinché partecipasse da protagonista alle aste in cui fu conteso il capolavoro ritrovato, tanto più laddove si consideri che egli fosse stato in precedenza uomo di tale pietas da figurare in veste di finanziatore nel restauro della Cattedrale della Natività della Santissima Madre di Dio presso il monastero moscovita di Začat’evskij. Si narra che il monastero fosse stato rifondato già una volta, dal menomato erede di Pietro il Grande e dalla consorte di lui, Irina Godunova, sorella del reggente. Gli sposi levavano da lì preghiere perché fosse loro esaudito il voto di una discendenza. Con l’infelice Fëdor si estinse, al contrario, la dinastia rjurikide, avanti che Boris Godunov aprisse la scena ai torbidi da cui sarebbe emersa l’ultima e dicesse, stando alla versione data da Puškin nel poema eponimo: «In quest’ora comparirò alla Tua presenza e non ho tempo di purgarmi l’anima in fretta e furia». Storie del genere diventano subito noiose se non le si racconta in un romanzo dall’intreccio complicato, converrete.

D’altronde, la melagrana del sole pende già dal viluppo vegetale, attraverso i serramenti sfondati ci osserva come una pupilla vermiglia dal bulbo oculare del tramonto. Non è rimasto molto tempo. Intono alla musa un canto d’amore struggente ma affrettato. Ci sono, ma non trovo le parole. Che il sogno sia muto? Non faccio a tempo a risvegliarmi che il rudere è appena stato demolito. Ormai non ricordo neppure quanti anni siano trascorsi dacché, al suo posto, sorge un salubre e ben connesso centro commerciale, dove incontro ogni giorno la mia musa, puntualmente, ma non la riconosco.



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