un racconto breve di Giancarlo Micheli
pubblicato sulla rivista l’immaginazione (Anno XXXVI, n.317,
maggio-giugno 2020)
Il poeta canta sonetti a Tiana
Vladimir Majakovskij
«Nell’era
dell’intelligenza artificiale e dei sistemi di riconoscimento biometrico,
l’arte autentica e sorgiva, non certo le imbrattature di emuli ed epigoni,
prefigura lo scaricamento della coscienza umana sull’ecosistema entro cui
compie il processo di riproduzione. Così va interpretata la prassi, oggi
comune, degli interventi effimeri nei contesti urbani, dove reclama una
specifica extraterritorialità dissimulandosi sotto etichette all’apparenza via
via anonime, quasi vi tentasse l’anacronistica resurrezione di un’opera
acheropita. Dunque, la soggettività dell’individuo futuro, rispetto alla quale
l’artista rimane indice antropologico e, in casi fortunati, beniamino della
vita, sarà progressivamente trascritta nell’universo materiale, finché non vi
si dispieghi in creatività virtualmente impersonale, pienamente fruibile alle
dinamiche spontanee della valorizzazione».
Una noia mortale queste
conferenze, non c’è che dire, pur dovendo riconoscere che gli argomenti
dibattuti non manchino d’interesse. Stavolta, il pretesto per congedarmi in
anticipo venne offerto dal ricordo di un graffito che mi era capitato di notare
a poca distanza, sul muro d’una fabbrica abbandonata, diruto ed avvolto di
farinelli e piantaggine. Sul calcestruzzo nudo, qualcuno ha tracciato
l’immagine frontale d’un volto, con inchiostro nero. La forma risulta dalla
composizione di svariate macchie, le quali replicano un identico motivo. La
preziosità del tempo, qual è norma valutare al tasso dei futures d’ultima
emissione, vieta ogni eventuale velleità di descrivere di che genere di
capolavoro si tratti. Avrei potuto, suggerirete voi, staccarlo con una sega a
disco, come ebbe già l’intraprendenza di fare, in circostanze simili, un
commerciante d’un quartiere palestinese di Betlemme; ovvero, dopo avervi
applicato un foglio cosparso di resine adesive, avrei potuto strappar via una
pellicola di conglomerato tanto sottile da portarmela a casa avvolta sotto al
braccio, come già alcuni luminari del più antico ateneo dell’Occidente ebbero
l’estro. Ci pensai seriamente, credetemi. Immaginai persino di rapire la mia
musa e condurla là, alla stessa stregua, si parva licet, di quel che dev’esser
balenato in mente al principe Mohammad bin Salman al Sa’ud, quando gli accadde
di impossessarsi di un’opera leonardesca dalla discussa attribuzione. Fatto sta
che non è per amore della bellettristica se ho fatto ritorno a quel luogo anche
in sogno. Diventa plausibile, però, soltanto adesso che io abbia là un appuntamento;
ma con chi? Debbo confessare non siano molte né significative le analogie tra
il mio reperto d’arte di strada ed il Salvator Mundi, che gli esperti
incaricati dal proprietario accreditarono alla palindroma mano del genio di
Vinci, innanzitutto in base alla scoperta, sotto ai pimenti di ritocchi
posteriori, di un cosiddetto pentimento: l’autore sarebbe stato incerto
sull’esatta iconografia da adottare per la mano benedicente del redentore, tant’è
che il pollice compariva sulla tavola sdoppiato, sia in posizione flessa che
distesa. Ciò parve ragione sufficiente per discernere quel particolare dipinto
quale originale entro la serie di circa una ventina di copie di bottega nelle
quali si sarebbero cimentati Marco d’Oggiono, il Salaì ed altri allievi del
Maestro. Una volta provveduto al restauro, l’icona rinascimentale vide levitare
le quotazioni, passando dapprima dal catalogo di un sindacato di mercanti
statunitensi a quello dello svizzero Yves Bouvier, poi da questi al russo
Dmitrij Rybolovlev, finché non attinse l’empireo presso la sede newyorchese di
Christie’s, quando un emissario del principe saudita se lo aggiudicò per una
cifra che rasentava il mezzo miliardo di dollari, prezzo mai prima pagato per
un’opera d’arte. Solo in seguito, alcuni critici constatarono l’incongruenza
della tecnica rudimentale impiegata nella rappresentazione della sfera
armillare che il Nazareno regge nella sinistra: non compare cenno degli effetti
di rifrazione della luce attraverso il cristallo, i quali pure avrebbero dovuto
ispirare la mente perspicua nell’osservare i fenomeni della natura quant’altre
mai, a fortiori ben sette decenni dopo i virtuosismi raggiunti da Van Eyck con
il Ritratto dei coniugi Arnolfini. Certi esegeti vollero spingersi
allora ad ipotizzare che la presenza del doppio pollice nella mano destra non
andasse affatto ascritta ad una qualche titubanza, bensì all’intenzionale
spostamento sull’arto opposto della distorsione ottica che saremmo legittimati
ad attenderci presso quello che sostiene invece il globo, secondo un procedimento
che risulterebbe congruente sia al carattere trascendente del soggetto sia alla
propensione dell’artefice verso il mistero e l’ineffabile. Poiché la pulitura
del dipinto si era risolta, non senza una qualche sbrigatività, nella
cancellazione della falange parallela all’indice e all’anulare, in modo che si
ripristinasse, foss’anche casualmente, il gesto tramite cui il clero ortodosso
impartiva il segno della croce prima del raskol, lo scisma che a metà del Seicento
fece sanguinosamente vacillare l’autocrazia zarista, in anticipo persino sulla
rivolta di Pugačëv, il dito omesso potrebbe aver avuto un certo momento nel
determinare la decisione del collezionista di Perm affinché partecipasse da
protagonista alle aste in cui fu conteso il capolavoro ritrovato, tanto più
laddove si consideri che egli fosse stato in precedenza uomo di tale pietas da
figurare in veste di finanziatore nel restauro della Cattedrale della Natività
della Santissima Madre di Dio presso il monastero moscovita di Začat’evskij. Si
narra che il monastero fosse stato rifondato già una volta, dal menomato erede
di Pietro il Grande e dalla consorte di lui, Irina Godunova, sorella del
reggente. Gli sposi levavano da lì preghiere perché fosse loro esaudito il voto
di una discendenza. Con l’infelice Fëdor si estinse, al contrario, la dinastia rjurikide,
avanti che Boris Godunov aprisse la scena ai torbidi da cui sarebbe emersa
l’ultima e dicesse, stando alla versione data da Puškin nel poema eponimo: «In
quest’ora comparirò alla Tua presenza e non ho tempo di purgarmi l’anima in
fretta e furia». Storie del genere diventano subito noiose se non le si
racconta in un romanzo dall’intreccio complicato, converrete.
D’altronde, la melagrana
del sole pende già dal viluppo vegetale, attraverso i serramenti sfondati ci
osserva come una pupilla vermiglia dal bulbo oculare del tramonto. Non è
rimasto molto tempo. Intono alla musa un canto d’amore struggente ma affrettato.
Ci sono, ma non trovo le parole. Che il sogno sia muto? Non faccio a tempo a
risvegliarmi che il rudere è appena stato demolito. Ormai non ricordo neppure
quanti anni siano trascorsi dacché, al suo posto, sorge un salubre e ben
connesso centro commerciale, dove incontro ogni giorno la mia musa,
puntualmente, ma non la riconosco.
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