un articolo di Giancarlo Micheli
pubblicato sulla rivista Il Grandevetro – trimestrale di immagini
politica e cultura (Anno XLIV, n.244, estate 2020)
Le stragi delle quali questo numero
seleziona una rassegna, sebbene non sia affatto vano indagare ciascuna nei
dettagli da cui emerge in specificità di situazioni ed in singolarità di destini,
avranno pure un denominatore comune in virtù del quale sia consentito
illuminarle razionalmente, senza per questo pretendere di sussumerle sotto
formule giornalistiche che conobbero effimere pandemie ed ancora non hanno
avuto il tempo di essere del tutto immunizzate nel neutrale lessico storiografico,
mi domando. Contrariamente all’abitudine, per cercare una risposta stavolta non
mi avvarrò di metodi fortuiti, vado a colpo sicuro. Conosco esattamente il
posto che occupa tra i volumi adiacenti, ed anche quale scaffale nella
libreria. Si tratta di un saggio che Walter Benjamin scrisse, guarda caso, proprio
durante i mesi in cui era in corso, a Torino, l’esperimento dei consigli di
fabbrica, raro esempio di autogoverno dei lavoratori tra i parlanti la nostra
lingua. Il titolo che il filosofo, allora ventinovenne, scelse fu Zur Kritik
der Gewalt, Per la Critica della violenza, ed egli stesso
tenne a precisare come l’analisi vertesse su rapporti giuridici determinati,
peculiari all’Europa a lui contemporanea. Nell’ambito di essi iniziò rilevando
una legge d’invarianza, secondo la quale gli ordinamenti statuali tendono, «in
tutti i campi in cui fini di persone singole potrebbero essere perseguiti
coerentemente con la violenza, a stabilire fini giuridici che possono essere
realizzati in questo modo solo dal potere giuridico». A titolo di
corroborazione, portava l’esempio delle norme che prescrivevano ai cittadini il
servizio di leva, cosicché gli era facile concludere che «il militarismo è
l’obbligo dell’impiego universale della violenza come mezzo ai fini dello
Stato». Da lì veniva ad interrogarsi se fosse mai possibile una regolazione dei
conflitti che facesse ricorso a mezzi puramente non violenti, per subito
ravvisarla nel linguaggio, dalla cui sfera l’esclusione di principio della
violenza è attestata da una circostanza significativa: l’impunità della
menzogna. In origine nessun codice la proibiva. Un tale divieto sarebbe sorto
soltanto in seguito, quale tratto distintivo di sistemi ormai non più efficienti
nel contrasto ad ogni minaccia estranea, tanto che giungessero a sanzionare
l’inganno non certo per considerazioni d’ordine morale, bensì per paura della
violenza che esso potrebbe scatenare nell’ingannato. Queste furono le ragioni
per le quali il diritto di sciopero venne accolto nelle varie legislazioni
nazionali, benché contrario agli interessi dello Stato, sovrastruttura politica
modellata a propria immagine per mano della classe ideologicamente egemone,
nonché proprietaria dei mezzi di produzione. Ai mezzi coercitivi, intesi alla conservazione
del diritto, il berlinese contrapponeva i mezzi puri della politica, in
particolare lo sciopero generale, distinguendo in esso due sottocategorie
decisive, grazie alle parole di Georges Sorel: per i partigiani del primo, lo
sciopero generale politico, «il rafforzamento dello Stato è alla base di tutte
le loro concezioni», se il loro riformismo trionfasse, e gli accadimenti
successivi avrebbero dato loro purtroppo vittorie sin troppo numerose, «lo
Stato non perderebbe nulla della sua forza, il potere passerebbe da
privilegiati ad altri privilegiati, la massa dei produttori cambierebbe
soltanto i suoi padroni»; al contrario, chi propugna il secondo, lo sciopero
generale proletario, vuole sopprimere lo Stato, «la ragion d’essere dei gruppi
dominanti che traggono profitto da tutte le imprese di cui l’insieme della
società deve sopportare gli oneri».
Al fine di riportare codeste riflessioni entro
la finestra repubblicana che la redazione ha deciso di prendere in esame, amico
lettore, considera se la caratteristica, che accomuna la maggior parte degli
efferati eccidi, di colpire alla cieca su vittime innocenti sia poco congruente
alle prassi tipiche di quel ventennio nel quale Piero Gobetti lesse
magistralmente l’autobiografia della nazione ed i cui timidi epuratori non
seppero reperire indizi probatori altro che per stabilire l’identità di appena
390 collaborazionisti dell’OVRA, lasciando impunite oceaniche maggioranze di
insigni conniventi al regime fascista, ma non dimenticare neppure altre empietà
che sono andate nel frattempo perpetrandosi, non senza aggravio di nocivi
effetti. Ad esempio, una statistica fornita dalla OMS, celeberrima in questi
giorni di lutto e di psicosi collettiva, registra nella sola Italia ottantamila
decessi all’anno attribuibili all’inquinamento atmosferico; intanto, le
industrie che ne sono responsabili continuano di mese in mese, tramite il
sistema mediatico di cui sono detentrici attraverso cartelli e trust, a
rivendicare esenzioni e privilegi, di cui lo Stato non tarda a farsi il docile
garante, laddove i diritti dei lavoratori vengono erosi con proporzionale
sicumera. Gli imprenditoriali corifei del made in Italy continuano dunque ad
accaparrare premi, prebende ed encomi, mentre le morti sul lavoro, a ratei
costanti, mietono le vittime equivalenti a quelle d’un conflitto bellico di
media intensità.
Ora, con validità esclusiva a quanto
attiene al testo che hai tra le mani, voglio pertanto proclamarmi, in piena
autonomia ed alla faccia delle italiche eccellenze, maestro del lavoro, in
virtù del fatto, che perderesti il tuo tempo a voler contestare, di aver
lavorato con gioia ogniqualvolta fosse possibile. Percepirai qua un metatesto?
Qualora ciò non accada imputami pure, magari senza livore o compatimento, di
aver voluto menarti per il naso, alla stessa stregua di quanto avrebbe fatto un
qualsiasi autore di gialli, specie dominante, almeno in termini quantitativi,
all’interno della famiglia del proletariato intellettuale che impiega i mezzi
di produzione del linguaggio, quasi mai per trasformarli, bensì per il profitto
dell’apparato editoriale-industriale. Sappi che non mi offenderò persino se vorrai
classificare l’autore del testo che reggi tra le dita nel genere ristretto, ma
non poi tanto, del sottoproletariato, entro la suddetta famiglia, essa per
prima ormai di rado consapevole o solidale, di norma del tutto orba di
coscienza di classe e a fortiori di specie. Il sottoproletariato: a sud delle
Alpi è invalso designarlo così, ed anch’io all’apparenza debbo inchinarmi all’autorità
dell’uso, ma non lo farò prima di aver ricordato il referente che il lemma incontra
nella lingua di Goethe: Lumpenproletariat. Lumpen significa, alla lettera,
stracci. Ciò offre occasione per ricordare l’epigrafe di Indie occidentali,
dove narrai l’epopea degli immigrati che, dall’Europa e pressoché dal mondo
intero, alimentarono di manodopera l’industria statunitense, al momento in cui oltreoceano
si gettavano le basi della dominazione imperialista: «La parola bayeta è il
termine comune spagnolo per straccio. Grandi quantità di questi erano prodotte
in Inghilterra per il commercio spagnolo e messicano, la maggior parte dei
quali era di un color rosso brillante. In questo modo l’inglese straccio
divenne lo spagnolo bayeta per gli Indiani americani del Sudovest. Familiari
con l’arte della tessitura, questi Indiani disfacevano la bayeta, la
riavvolgevano in uno, due o tre fili e la ritessevano nelle loro coperte, che
sono adesso quasi senza prezzo. Questa vecchia coperta fu trovata dall’autore in
un recinto del Nuovo Messico, per pulire l’assale del suo calesse. Era coperta
di fango e sporcizia. Un certo numero di lavaggi rivelò questo glorioso
esemplare dell’arte della tessitura (da William Carlos Williams, The Great
American Novel, Paris, The Three Mountains Press, 1923)».
Ad ogni buon conto, a te che, al postutto,
riterrai ti sia conveniente l’appartenenza all’apparato, all’unica ed autentica
burocrazia del sistema di avvilimento e incretinimento in vigore oggi, il cui
operato potrebbe esser visto, finché non lo si vieti espressamente, come un
ecumenico depistaggio delle menti e dei cuori, bada di non risvegliarti un
mattino in cui la realtà venga rimessa sulle gambe: non sarà poca la vertigine
nel ritrovarti a testa in giù. A te, invece, che al compimento di questa pur
minima mutazione, ti sentirai donna o uomo come mai prima: confidiamo l’una
nell’altro come in una medesima coscienza, affinché il mondo si riempia di differenti
bellezze, quali ieri non sapevamo ancora immaginare.
Eccellente, come sempre.
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