una recensione di Christophe Mileschi – Université Paris-Nanterre
pubblicata su Literary (n.11/2022)
Ho
letto quest'estate La grazia sufficiente (Campanotto, 2010) di Giancarlo
Micheli, nelle pause di un viaggio in moto con la mia compagna nel sud ovest
della Francia e poi nel nord della Spagna. Forse è stato un errore leggere
questo romanzo in un periodo di costanti spostamenti e vibrazioni meccaniche. O
forse no. Un errore, forse, perché la scrittura dell’Autore richiede molta
attenzione, molta presenza attiva in chi legge, scrittura concentrata,
prodotta, lo si avverte ad ogni frase, con estrema concentrazione, e che esige
dal lettore altrettanto impegno: perciò, leggere un pezzo un giorno, far
centinaia di chilometri, visitare, discutere d'altro, e poi riprendere la
lettura aveva qualcosa di frastornante; forse, dico forse, La grazia
sufficiente andava letta in un momento di pace esteriore e interiore (ma
questa seconda forma di pace mi è spesso difficile, per motivi “soggettivi”,
legati a chi sono, all'irrequietezza che mi tiene in pugno; e la prima mi è
difficile quasi sempre, per motivi “oggettivi”, ma che credo derivino in
parte dai precedenti: ho sempre fatto sì da essere iperimpegnato, iperattivo).
Ma
forse invece non è stato un errore, proprio per il contrasto tra l'agitazione
di quel viaggio e la calma che pervade e emana da La grazia
sufficiente. Dico calma: non so se sia la parola giusta, ma non sono
riuscito a trovarne altre più soddisfacenti per designare lo “spazio” in cui si
svolgono le avventure narrate. La grazia sufficiente apre,
fonda, inventa uno spazio, uno stato, una realtà come out of the word. Presenta
i personaggi e i fatti in una luce d’oltremondo, come se narrasse non tanto i
fatti e i personaggi quanto le quinte insondabili ed estemporanee del loro
agire.
Mi
ritrovo pienamente in certe cose che scrive Stefano Busellato riguardo al
Micheli romanziere: è vero, assolutamente vero, che il primo contatto con la sua
scrittura è difficile, ostico quasi: impossibile per il lettore entrarci senza
farci caso, con disinvoltura: il lettore deve invece darsi da fare, prendersi
per mano, durare lo sforzo di intendere. Accettare (e ricordarsi)
che leggere non è come sentire una canzonetta, ma è un vero lavoro. Ed è
vero anche che, superata la prova, adottato il suo ritmo, addomesticata la sua
atipica prosodia, introiettato il suo “stile” (nei tanti significati del
termine), leggere un testo di Micheli è un'esperienza inconfondibile. Una volta
“entrato” dentro, ogni volta che riaprivo il libro, mi trovavo subito
riassorbito in quella atmosfera rarefatta, essenziale, quintessenziale, in un
qualcosa che a che fare col mito (ho pensato spesso a Pavese, non so bene
perché, dal momento che la scrittura di Micheli è lontana assai della sua; ma
ho visto che viene nominato anche in altre recensioni).
Leggerò
altri lavori di Micheli, per primo probabilmente Elegia provinciale, il
suo esordio. Ormai ho capito che la sua non è letteratura d’intrattenimento…
Aspetterò il tempo opportuno.
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