recensione di Anna Longoni, Università di Pavia
a Romanzo per la mano sinistra (Manni, 2017) di Giancarlo Micheli
pubblicata in “Patria indipendente” (Anno LXVI, settembre2017)
Qualche anno fa Cesare Segre,
riflettendo, in dialogo con Abraham Yehoshua, sul rapporto tra etica e
letteratura, si diceva convinto che, in periodi segnati da una grave crisi di
valori, nella valutazione di uno scrittore (o nella definizione di un canone)
diventa legittimo ricorrere anche a
un criterio morale. Perché ci sono tempi, e i nostri lo sono, in cui alla
letteratura si deve chiedere di svolgere una funzione di guida e di denuncia. È
certo qualcosa di più di una coincidenza il fatto che in questi ultimi anni
scrittori tra loro diversi, e di diverse generazioni, abbiano condiviso
l’esigenza di tornare a raccontare il periodo della Seconda Guerra Mondiale –
si pensi a libri come Partigiano Inverno
di Giacomo Verri, Evelina e le fate
di Simona Bandelli, o Mi ricordo di
Paola Capriolo –, evidentemente mossi dall’esigenza di risvegliare le coscienze, di continuare in
una testimonianza ancora necessaria, di richiamare il lettore alla difesa di
valori che si stanno sempre più perdendo.
Anche Micheli sceglie, con lo stesso
proposito, di raccontare l’orrore e la ferocia di quel pezzo di Novecento: la
narrazione, racchiusa da una cornice che riporta al passato prossimo degli anni
Sessanta-Settanta, si concentra su un decennio di storia italiana ed europea
seguendo, a partire dal 1937, le vicende di una coppia di intellettuali ebrei,
Stefan e Ada Bauer, di origini morave lui, italiane lei, e del loro figlio
Bruno, lungo percorsi che da Vienna li porteranno, inizialmente uniti poi
separati, in Italia, Ucraina, Polonia, Germania, Egitto, tra persecuzioni,
ricatti, complicità e resistenza. La loro storia, certamente eccezionale ma per
alcuni aspetti simile a quella di migliaia di altre persone, permette
all’autore di disegnare un grande affresco, una mappa che si stende su molta
parte dell’Europa, sulle cui strade si incrociano le idee, i pensieri, le
azioni dei più importanti personaggi del tempo, protagonisti della storia
politica e militare, ma anche di quella culturale: si incontrano così in queste
pagine, tra gli altri, Sigmund e Anna Freud, il matematico polacco Hugo
Steinhaus e il fisico ungherese Eugene Wigner, Luchino Visconti e Leni
Riefenstahl, Angiolo e Laura Orvieto, Bonaventura Tecchi e Concetto Marchesi …
La ricostruzione storica appare
sempre molto precisa e, come nel modello manzoniano – ma per un testo ricco di
richiami al mondo classico si potrebbe fare anche il nome di Tacito –,
l’invenzione di gesti quotidiani, di particolari privati, di dialoghi, si
colloca dentro la documentata ricostruzione degli avvenimenti.
Ritornano nel romanzo episodi già “raccontati”
nella tradizione letteraria, per i quali Micheli sa trovare accenti nuovi (da
antologia, per esempio, la pagina sul primo esperimento di gassificazione), ma
vi sono anche vicende meno rappresentate (come l’assedio di Leopoli). Ciò che
però soprattutto colpisce è lo sguardo “grandangolare” con cui Micheli, dopo
aver messo a fuoco singoli eventi e personaggi, riesce a legarli in un
complesso gioco di relazioni, costruendo un arazzo i cui fili si annodano in
una trama complessa. Punto di forza è inoltre la capacità di far emergere nella
filigrana del presente i segni del passato, e così, per fare un solo esempio,
la vicenda di due donne tedesche prigioniere a Ravensbruck in quanto comuniste,
caparbie nell’impegno di danneggiare la catena di produzione del campo,
riaffiora nei boicottaggi praticati nelle fabbriche milanesi negli anni
Settanta.
Il legame tra il passato e il
presente si incarna nel giovane Bruno che, una volta diventato adulto,
ripercorre la dolorosa vicenda dei genitori, con l’aiuto delle lettere che il
padre gli aveva scritto, nella convinzione che il figlio avrebbe potuto
completare il percorso di individuazione di sé solo attraverso il racconto in
prima persona di quanto lui e la moglie stavano vivendo. Per Bruno, siamo ormai
negli anni della Lotta Armata, l’incontro con la verità si traduce,
inizialmente, nella decisione di aderire al terrorismo, per punire i
responsabili delle sofferenze dei genitori, ma presto cambierà idea.
Abbandonata la P38, sceglierà, proprio come suo padre, la scrittura: il suo
obiettivo diventa denunciare i crimini nazisti in un racconto “composto secondo
lo spirito della giustizia ed affidato alla buona volontà delle donne e degli
uomini a venire, e di cui tu, lettore, tieni adesso, tra le mani e la coscienza,
il possibile reperto”.
Questo è anche quanto si prefigge
Micheli: Romanzo per la mano sinistra
vuole essere un reperto che smuova la coscienza del lettore di oggi, cui spesso
la voce narrante si rivolge, chiamandolo in causa, provocandolo, costringendolo
ad affrontare grandi questioni. Molti sono i temi affrontati: tra i più
importanti la responsabilità dell’individuo nella società di massa, a partire
da una riflessione su quei “miti carnefici” di montaliana memoria – il
negoziante sotto casa, i vicini, le “brave persone, timorate di Dio” – pronti a
trasformarsi in una “massa indistinta di fanatici”. Forte la denuncia contro
chi, pur senza compiere il male, si astiene dal bene e si fa così complice
della comune infelicità e sventura. Decisa e argomentata la polemica contro il
capitalismo. E poi ci sono la questione femminile, i limiti del progresso, il
ruolo dell’arte. Non mancano veloci incursioni nell’attualità (come accade col
riferimento al neo-direttore di “Repubblica”).
Nel panorama letterario di oggi Romanzo per la mano sinistra appare
un’opera decisamente spiazzante: già a partire dal titolo, evidente citazione
del Concerto per pianoforte per la mano
sinistra scritto da Ravel per Paul Wittgenstein (che aveva perso un braccio
durante la Prima Guerra Mondiale), e insieme scoperta indicazione di una
precisa prospettiva ideologica da cui l’autore guarda e giudica il mondo. Ma
soprattutto perché è un libro impegnativo, che richiede una lettura lenta e
meditata: il respiro è quello delle narrazioni ottocentesche; l’andamento, lo
sottolinea Ferroni nella quarta di copertina, è quello epico.
Spesso la voce del narratore esterno
– che per lo più rivela, anche attraverso il frequente ricorso al discorso
indiretto libero, il punto di vista del figlio-testimone – e quella del
narratore interno – che prende la parola nelle lettere – si intrecciano e,
volutamente, si confondono. Lo stile è accuratissimo. Il modello è la concinnitas ciceroniana: la complessità
del reale richiede un periodare fortemente ipotattico, rallentato talora da un
alto numero di incisi che costringono l’autore a riprendere, con andamento
anaforico, la reggente d’apertura. Il lettore più volte deve tornare indietro,
mettere dei pezzi tra parentesi per ritrovare il filo, deve ripercorrere le righe,
con pazienza, come quando, per comprendere il reale, si devono rivalutare
eventi e pensieri. Ma alla fine tutto, sintassi e riflessione, risulta
perfettamente calibrato.
Le parole sono sempre esatte,
precise, spesso difficili, perché la complessità può solo essere rappresentata
e interpretata da una lingua ricca, capace di dire con precisione e di modulare
diversi registri (suggestivo è il contrasto tra lo stile alto della maggior
parte delle pagine e l’autenticità popolare dei proverbi e delle espressioni
idiomatiche poste in testa ai capitoli): perché, ammonisce lo scrittore in un
passaggio del libro, la povertà linguistica è uno degli strumenti utilizzati
dal potere per soffocare le coscienze, insieme alla promozione della
superficialità, che fa “apparire la sapienza, invece che nello sviluppo del
pensiero, piuttosto nell’osservazione immediata e nell’immaginazione
accidentale”.
È per combattere l’uno e l’altra che
si scrivono, e si leggono, libri come questo.
Anna Longoni
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