lunedì 4 luglio 2011

Micheli: La grazia sufficiente

Micheli: La grazia sufficiente

recensione pubblicata sulla rivista
Erba d'Arno (n.123, inverno 2011)

 «Di tutte le cose che soddisfano i suoi bisogni l’uomo attribuisce il maggior valore a quelle che meno gli sono indispensabili». È uno dei tanti aforismi che punteggiano il testo di Micheli. È un aforisma dal sapore orientale, quasi una massima confuciana, ma è anche una sentenza occidentale, che contiene una critica implicita al capitalismo che in occidente ha avuto i propri albori. Due personaggi: un giapponese Taisho, che studia per conformarsi al modello occidentale, e un olandese, Baruch, che vivrà in Giappone ed assumerà gli usi e i costumi del luogo. La scena principale del romanzo è posta a Nagasaki, città che, a distanza di pochi anni da quelli in cui si svolgono le vicende narrate, rappresentò il punto di impatto più devastante nell’incontro tra Occidente e Oriente.
 Il libro offre un ricchissimo campionario di tali luoghi d’incontro e rovesciamento, uno dei quale è proprio la ricchezza, intesa in senso occidentale, sotto la categoria della quantità, ma non disgiunta da una correlativa accezione orientale, quale ricchezza interiore e dissipazione di essa. La ricchezza è anche la cifra più evidente della concrezione stilistica dell’opera. Quello del Micheli è uno stile ricercato, minuzioso, alto, dove ricorre un continuo utilizzo di vocaboli desueti, non perché arcaici ma perché esclusi dall’uso quotidiano della lingua; vi emerge un tentativo di riportare la nostra lingua a una ricchezza che le è propria, giusto in un momento in cui si sta, ovvio costatarlo, terribilmente impoverendo. La grazia sufficiente è il terzo romanzo del Micheli; chi conosca i precedenti sa delle difficoltà che si incontrano nell’affrontarne le prime pagine, e sa anche del piacere che si prova ad andare avanti, sa della facilità con cui, una volta che si sia acquisita familiarità con i modi narrativi dell’autore, si voglia impazientemente arrivare all’epilogo e come, guardandosi poi indietro, si rimanga estremamente grati alla ricercatezza e al non svilimento di parole che costituiscono il valore della lingua italiana. Tipico dello stile del Micheli è un continuo, quasi ossessivo, accoppiamento di sostantivo e aggettivo, spesso di sostantivo e aggettivi. Scrive Cesare Pavese nel Mestiere di vivere: «Anche se proviamo un palpito di gioia a trovare un aggettivo accoppiato con riuscita a un sostantivo, che mai si videro insieme, non è stupore all’eleganza della cosa, alla prontezza dell’ingegno, all’abilità tecnica del poeta che ci tocca, ma meraviglia alla nuova realtà portata in luce». Il valore della prosa del Micheli risiede esattamente nella capacità, dispiegata in ogni frase e in ogni periodo, di portare alla luce nuove realtà, dapprima linguistiche ma che si trasformano, poi, in nuove realtà prettamente percettive. Alla conclusione della lettura di un romanzo di Micheli traiamo una percezione dell’esistente estremamente più ricca di quanto ci era compagna prima.
 Anche dal punto di vista narrativo riscontriamo una analoga abbondanza di temi e di strutture. Due personaggi indipendenti, l’uno reincarnazione dell’altro, forse, si incontrano in maniera sfumata, in sogno, un ricongiungimento onirico. Si incontrano nuovamente, forse, nel capitolo conclusivo. Tutto ciò avviene in forme e stati di coscienza molto vicini a quelli che Esiodo attribuisce a Hypnos, figlio della Notte e fratello della Morte. Qua il sogno è soglia privilegiata tra la realtà presente ed una ulteriore. In tal senso si potrebbe dare allo stile di Micheli la definizione di realismo onirico, così come di onirico realismo si compone la narrazione della Cabala. Anche nella struttura narrativa de La grazia sufficiente ritroviamo due serie parallele e tra di loro intrecciate: ancora una volta Occidente, nella precisione linguistica e dei riferimenti culturali, e Oriente, nei concetti portanti di possibilità e dissipazione. Talvolta sembra che la storia prenda una certa via, ma subito dopo ne imbocca invece una diversa e non prevedibile. Personaggi che sembrano poter essere coprotagonisti svaniscono poi nel nulla, proprio come nel sogno, proprio come nella vita, nella realtà. La cifra che caratterizza i personaggi del romanzo e le loro relazioni non è l’equidistanza, di consuetudine e stampo occidentali, bensì la equiprobabilità; non è la mezza misura, la medietas, la mediocritas, ma piuttosto una fluttuazione attiva, un movimento che si dispiega di nuovo come in sogno, ancora una volta come nella realtà. Il movimento nella filosofia orientale è un processo, una via; la parola Tao significa ciò: la via. Il filosofo taoista Meng Zi scrisse: «Si lede il Tao se ci si attiene all’uno, se si accoglie un principio e se ne trascurano cento».
 La logica del discorso filosofico orientale non è di tipo razionale (ratio), che ripartisce, ma è una logica sfumata, che si gusta e si lascia sciogliere sulle papille gustative della mente o dell’anima. Nel pensiero orientale esiste il contrario della verità, ma non è, come in occidente, la falsità; è piuttosto la parzialità. Non vero è ciò che non riesce ad abbracciare tutte le possibilità dell’esistente. Si tratta, dunque, di un tipo di logica del tutto contraria a quella esclusiva (non contraddizione, terzo escluso) su cui si fonda il pensiero occidentale da Aristotele in poi. Tale logica è invece inclusiva, ogni possibilità è mobile e fluttuante, e ricompare ovunque lungo tutto il romanzo di Micheli. Auguste Blanqui, rivoluzionario nizzardo che fu internato nella prigione dello Château d'If in seguito al fallimento della Comune di Parigi di cui era stato membro, ebbe un’idea assolutamente orientale, che più tardi Nietzsche riprese nella propria concezione dell’eterno ritorno e che può rischiarare bene l’intreccio narrativo adottato da Micheli. Scrive Blanqui nel breve saggio del 1871 L’éternité par les astres: «Esiste una terra in cui ogni uomo segue la strada che il suo sosia ha disprezzato nell'altra. La sua esistenza si sdoppia in due globi diversi, e poi si biforca una seconda, una terza volta, migliaia di volte. Possiede così dei sosia identici e incalcolabili varianti di sosia, che sono la stessa persona moltiplicata, ma che condividono solo dei frammenti dello stesso destino. Tutto ciò che si sarebbe potuto essere quaggiù, lo si è altrove, da qualche altra parte». Un’idea visionaria e terribilmente affascinante: altrove continuano a vivere le possibilità che qui abbiamo scartato. Questo sapiente utilizzo del concetto di possibilità è anche il merito che si deve dare a un libro come La grazia sufficiente, al cui autore dobbiamo essere grati per un testo di tanta ricchezza in un momento di così buia povertà culturale, un testo tanto ricco da dissipare, tanto onirico da mostrare che il reale è costituito da molteplici e diversi possibili.
Stefano Busellato



dal capitolo IX del romanzo "La grazia sufficiente" (Campanotto, 2010) di Giancarlo Micheli; lettura di Ilaria Pardini

Il mito americano tra sogno e realtà

Il mito americano tra sogno e realtà


recensione pubblicata sulla rivista
Quaderni di Farestoria (anno XII - n.3, settembre-dicembre 2010)

 
 Poeta e scrittore, ma anche critico e traduttore, ricercatore aperto alle sollecitazioni delle più diverse tendenze e dei multiformi linguaggi dell’arte contemporanea, Giancarlo Micheli , viareggino, è un artista “per vocazione”, come lo definisce il decano Manlio Cancogni che nella prefazione a questo suo secondo romanzo, Indie occidentali, ne sottolinea la “meticolosa cura artigianale” della scrittura.
 Una qualità di cui Micheli aveva già dato prova nella sua ‘opera prima’ di ampio respiro, Elegia provinciale, pubblicata per i tipi della collana Mediterranea dell’editore Mauro Baroni di Viareggio nel 2007.
 Allora la vicenda, fra storia e finzione, ruotava tutta attorno alla vita del maestro Giacomo Puccini e alle ‘sue’ donne (la moglie Elvira, la focosa Fosca, la giovane Giulia, l’affascinante Sybil) – soprattutto attorno ai dubbi angoscianti sul suicidio della servetta Doria Manfredi, che con quel gesto intendeva affermare la propria illibatezza.
 Era quindi un romanzo storico e biografico, una love story, un’analisi di coscienza e delle coscienze, infine un vero e proprio romanzo giallo che sulle rive del lago di Massaciuccoli si consumava in un sapiente gioco di equivoci.
 E Puccini, – ora al Metropolitan di New York per riscuotere, pagato il prezzo della “vita della ragazza”, il “meritato successo”, per sé e per lei, alla prima della Fanciulla del West il 10 dicembre 1910 –, è il pretesto per accendere i riflettori sulla simbolica e “bronzea figura” della statua della libertà che vicino a Ellis Island accoglie le speranze di “quanti tessono la trama del mondo possibile, l’arte alla vita”, come si legge nella dedica.
 Si tratta di una giovane coppia di sposi, Erminia e Aurelio, emigranti nell’America del sogno utopistico all’inizio del ’900, sullo sfondo dello sfrenato sviluppo industriale e delle lotte sindacali degli Industrial Workers of the World.
 Una vicenda umana, come quella di tanti “disperati” che “avevano voluto venire all’america, imbarcati nelle stive, nelle sale macchine, nelle pance gravide dei bastimenti” (p. 36), seppure mitigata dal fatto che al loro arrivo i due protagonisti hanno le possibilità economiche per gestire un piccolo bar in Mulberry Street a Manhattan, anche se il quartiere non è dei più raccomandabili e la clientela è fatta di diseredati “scavezzacollo”:

Li aveva presi il vento, quello dei fortunali d’inverno, che porta via nel suo turbine stregone armenti e lupi, e li trascina lontani, al di là delle montagne azzurre. Se ne erano partiti con la dote dei bei corredi di lino, che le donne di casa sbrigavano dai tiretti del canterale, cosicché tutto un brivido di lavanda infebbrava la purezza degli imenei, e li inghirlandavano i fiori del pesco e l’aurifera primavera dei sessi. L’america era stato agio e intravisto splendore, conquistato diritto a sfilare per viali di opulento gaudio, tangenti a paradisi di anglofoni numi (p. 17).


 Ma anche disumana, perché la loro “ingenuità” e “ignoranza delle dinamiche violente e spietate che informano i rapporti nella comunità che li accoglie” (e Aurelio sa bene che “oramai era giusto che sui treni ci salisse da mascalzone quale aveva scelto di essere”, p. 63) saranno punite dal racket con l’attentato al bar e con l’incendio della loro modesta, ma dignitosa casa popolare in cui muore la mamma di Erminia. Dovranno, allora, emigrare ancora e, questa volta, lottare per sopravvivere: prima, negli stockyards (i mattatoi) di Chicago e poi, nelle industrie tessili di seta a Paterson nel New Jersey.
 In questa altalena tra bene e male, fiducia e sfiducia, entusiasmo e depressione, i due ragazzi si rendono conto di quanto fosse “sottile l’argine che proteggeva la serenità di ciascuno dalla marea della disperazione e della miseria” (p. 73) e approdano: lui, alla fede politica e alla partecipazione attiva all’azione del sindacato “affinché a Eugenia [la loro bambina ancora piccola] fosse accordato un futuro diverso, e più felice” (p. 167); lei, alla fede scientista della Church of Christ, dove il calore umano e la comprensiva accoglienza le fanno assaporare il diritto a una vita libera e indipendente, di Verità e di Amore.
 La finzione narrativa, che con un finale a sorpresa si concluderà proprio a Ponte a Moriano, nella Valle del Serchio lucchese, dove era iniziata una trentina di anni prima (ma tutta l’azione ha sempre un andamento circolare, anche in America dove da New York si torna a New York!), e la documentazione storica, incentrata sull’idea di democrazia libertaria internazionalista e rivoluzionaria del movimento sindacale operaio e ricostruita soprattutto sull’attività dei setaioli di Paterson tra il ’12 e il ’13, sono i due capisaldi con cui Micheli si prefigge


di districare il roveto dei fatti a partire dalle radici reali di un’esistenza possibile, portatrice di una sua essenziale ricchezza di gioia e di dolore, unita alla catena di una durevole trama, i cui anelli non siano deboli e forti, bensì irripetibili e originali, come in verità sono stati ogniqualvolta l’uomo è sorto all’essere nelle sue azioni (p. 96).


 E lo fa riuscendo ad amalgamare, nel fluire del racconto, il linguaggio quotidiano dei protagonisti con le espressioni del loro dialetto d’origine fuso talvolta ad un inglese approssimativo e sgrammaticato (p.e.: “Goodnight Aurelio, m’astu portà li sghei?” o “you shall bring me a whole of cheese, if you has got… per la mi’ socera, che delle cose di qua non ne vol mangiare”, p. 22) e, contemporaneamente, ad intercalare nel discorso l’uso – quello suo proprio, che lo connota – di una sintassi complessa e di un lessico ricercato, cioè di un registro dai toni elevati e solenni che conferiscono preziosità alla prosa e spessore allo stile:


La mamma l’attendeva – Erminia non aveva dubbi –, la attendeva impaziente di affidarle nelle braccia la bimba, tutta infagottata e olente di giulebbe, la attendeva per compiere quel gesto altero, con sufficienza di levatrice d’anime. Dopo che avesse fatto scricchiolare tutto il rosario delle ossa annose, sollevandosi dalla poltrona imbottita, la mamma avrebbe detto “l’ho cullata tutta la sera. Sta bimba ‘un piange mai; averemo d’apprendeglieli noaltri i dispiaceri” o qualcosa del genere, ma sempre con la voce burbera e chiotta, e forse avrebbe aggiunto “di costì, ‘ndove m’avete volsuto acciottorare, ‘un c’è la vita vera… ‘un c’è da pigliassi dell’embrioni” e avrebbe concluso strozzando nella gola un risentito cachinno, che era quel che a Erminia spaventava di più, anche di più che non tutti i discorsi sul povero babbo buonanima o sui terreni di Ponte a Moriano (p. 18).


Disinvolto narratore eterodiegetico, Micheli interviene sternianamente nell’opera in prima persona solamente per ricordare al lettore quando è ambientata la vicenda (“Si ricordi […] Mi propongo […]”, p. 96) e per riflettere sulla maniera più giusta di “raccontare” un personaggio scomodo come il vecchio padrone Catholina Lambert (p. 125).
 Al tempo stesso, però, si dimostra un perfetto direttore onnisciente, essendo capace di armonizzare la realtà e il sogno in descrizioni di forte impatto impressionista.
 L’oggettività della narrazione storica, che si pone come background e framework della vicenda e nasce da un’accurata e minuziosa documentazione condotta al limite dell’ossessione, porta sulla scena tante figure reali: il romanziere progressista Jack London, l’animoso giornalista radicale John Reed, l’anarchico sindacalista Carlo Tresca, il dirigente degli Industrial Workers William Dudley Haywood (più noto come ‘Big Bill’), l’intellettuale e filantropa Mabel Dodge Luhan, l’editore della rivista «The Masses» Max Eastman e, last but not least, il maestro Puccini.
 Sulla storia, con abile maestria, Micheli innesta l’incanto della fantasia nel cammino evolutivo di due soggetti ‘innamorati’, di una figlia bambina che inaspettatamente ritroviamo signorina nell’ultimo capitolo, e di una folta schiera di comparse (hobos, lavoratori occasionali e nomadi; tramps, barboni e non lavoratori; bumps, fannulloni e ubriaconi) e coprotagonisti più o meno flat (Ernesto, Venanzio, il Sor Clemente, il capitano Burns, il caposquadra Nathaniel) o round (la spigliata e determinata Sophonisba, l’irrequieta e affascinante Olga e suo padre Pietro Botto), secondo le categorie di forsteriana memoria e le necessità imposte dalla partitura.
 Il romanzo storico si fonde, allora, con quello di formazione e si distende nell’aspirazione di Erminia e Aurelio alla stima e considerazione umana all’interno dell’eterogeneo ma solidale gruppo sociale d’appartenenza e nella ricerca della consapevole capacità di denunciare, senza violenza, attraverso la produzione di una pièce teatrale (dove echeggia l’epilogo della Tosca pucciniana), l’oppressione che le nuove classi operaie cosmopolite subivano in America prima di poter affermare il loro diritto alla “dignità per ciò che erano e per ciò che sapevano fare” (p. 165).
Fabio Flego

bol



dal capitolo XLV del romanzo "Indie occidentali" (Campanotto editore, 2008) di Giancarlo Micheli; lettura di Paola Lazzari