martedì 22 novembre 2016

Le ragioni per cui valga la pena di vivere

recensione di Tomaso Kemeny
Il fine del mondo (Ladolfi, 2016) di Giancarlo Micheli
pubblicata in l’immaginazione – rivista di letteratura (Anno XXXII, n.296, novembre 2016)

Già in un romanzo precedente, Elegia provinciale, in cui si trattava della morte di Doria Manfredi, presunta amante dell’indimenticabile Maestro Puccini, fatto di cronaca assai clamoroso nell’epoca e nell’ambiente dove avvenne, consono a mostrarsi quasi come un gossip ante litteram, Micheli si concentrava invece ad evocare il paesaggio agricolo che andava progressivamente diventando industriale, le consuetudini, i numerosi vizi e le rare virtù di una nazione che si preparava all’ecatombe della prima guerra mondiale. Se può ritenersi facile formulare vaticinî retrospettivi sulla base di accadimenti storici assodati, come l’autore faceva allora, egli con Il fine del mondo conferma, adesso, una vena profetica.
Volendo istituire un parallelo con un intellettuale di fama quale Umberto Eco, laddove questi esercitava la virtuosistica capacità, avendo ben studiato Tommaso d’Aquino, di costruire delle tipologie di eventi cui dare un significato in rapporto al presente, Micheli dispiega nella prosa un acume critico, talvolta visionario, che potrebbe essere considerato neo-marxiano. Se lo psicoanalista legge un sintomo per dargli un senso, in maniera analoga Micheli accompagna il lettore lungo belle descrizioni naturali, amorose, ecologiche, relative a contesti delle più varie situazioni sociali e geografiche, come in quest’ultimo romanzo dove si spazia dalla Cina alla valle del Niger e fin nel Vecchio e nel Nuovo continente, finché, sotto la nebbiolina di uno stile complesso e mentre si indagano i temi fondamentali della vita – cos’è l’amore, cosa il denaro, cosa la gioia o il dolore  –, appare in filigrana il pericolo della fine del mondo, proprio alla stregua di un mostruoso segno rivelatore degli impulsi autodistruttivi sepolti nell’inconscio collettivo della specie. In un’epoca di scrittura superficiale, talvolta magari anche brillante, l’autore di Indie occidentali e della Grazia sufficiente ne esibisce, in esplicita controtendenza, una che è tutta densità, stratificata in piani polisemici che sempre stimolano la perspicacia interpretativa del lettore. In un passo di uno dei capitoli iniziali, che mi sembra esplicativo per illustrare quali siano gli strumenti espressivi caratteristici della lingua narrativa di Micheli, è dato imbattersi in una tipica epifania joyciana, in cui il racconto si illumina di senso: «La corrente trascinava tronchi d’albero, suppellettili e veicoli con parimenti equanime inerzia. Sul tetto di un’automobile un prete cattolico, la veste talare a tal segno intrisa d’acqua da piegargli le ginocchia sotto al proprio peso, resisteva tuttavia in postura eretta e volgeva al cielo ossecrazioni che doveva aver tratte dal Libro di Daniele o dall’Apocalisse di Giovanni». Troviamo qua, oltre ad un’ironia che ricorre spesso anche altrove ed ogni volta attentamente dosata, la forza travolgente della natura, la quale prostra il malcapitato sacerdote nel medesimo gesto che egli ha appreso ad eseguire in segno di lode o di supplica dinanzi  all’oggetto della propria fede. Non dunque la forza del destino, sempre connotata da un’esuberanza drammatica, bensì quella della natura, che ama nascondere il grande dentro al piccolo, il limite superiore dell’energia nei minuscoli orbitali dell’atomo. In ciò consiste anche la forza della scrittura di Micheli, poiché essa non esplicita i contenuti ma si limita a renderli accessibili all’illuminazione di chi legge. Il fine del mondo risulta, pertanto, un’opera interamente inscritta nel tempo presente, così da lasciare intravedere, nell’aspetto intimamente concreto dei vissuti soggettivi, la terribile minaccia apocalittica incombente sul pianeta, minaccia che lo stile stesso evoca, attraverso la congruente metafora del diluvio: frasi dilatate con impetuosità, che offrono una rappresentazione indiretta dei flagelli attestati in molteplici tradizioni. Accanto a ciò – cosa che ci ha suggerito una lettura del testo in termini, come detto, neo-marxiani  compaiono, in antitesi dialettica, le ragioni per cui valga la pena di vivere.
Tomaso Kemeny

II fine dell’esistenza o la cognizione di un mondo infine abitabile

recensione di Fabio Flego
a II fine del mondo (Ladolfi, Borgomanero , 2016, pp. 126, € 12) di Giancarlo Micheli
pubblicata in Erba d’Arno (n.144/145, primavera/estate 2016)

Giancarlo Micheli, classe 1967, si dedica alla scrittura, in versi e in prosa, da oltre vent’anni ed ha al suo attivo numerose pubblicazioni comparse in volume, in riviste letterarie e in antologie.
Delle sue raccolte di poesia si segnalano Canto senza preghiera (Baroni, Viareggio 2004), Nell’ombra della terra (Gabrieli, Roma 2008) e La quarta glaciazione (Campanotto, Udine 2012).
In ambito narrativo, II fine del mondo è il suo quarto successo editoriale. Dopo l’esordio con Elegia provinciale (Baroni, 2007), un romanzo giallo, storico e biografico al tempo stesso, una love story, un’analisi di coscienza e delle coscienze che sul Lago di Massaciuccoli, «specchio di antichi e selvaggi enigmi», vedono protagonisti il maestro Puccini e le sue donne, passando attraverso la storia, in Indie occidentali (Campanotto, 2008), dell’emigrazione di una coppia di giovani sposi toscani «guidati dal desiderio di affermare valori condivisi e di progredire umanamente», fino al viaggio narrativo di La grazia sufficiente (Campanotto, 2010) «per risalire al tempo dei primi contatti tra le culture occidentale e orientale, alla ricerca di una vita umana e sensibile, equanime e felice», Micheli torna ora a stupirci con il messaggio subliminale di questi trenta capitoli coinvolgenti e scioccanti, impreziositi da un prologo, un epilogo e un’appendice illuminanti, che, con l’incalzante urgenza di trenta sequenze sceniche non sempre consequenziali, si rincorrono per dare una visione utopica della realtà ed invitare a una riflessione sul fine dell’esistenza o sulla cognizione di un mondo infine abitabile.
Il fine, appunto, sostantivo maschile, come scopo o termine cui è diretta un’azione [lat. finis, per calco dal gr. τέλος nel significato di «fine, scopo»], ma anche il/la fine, sostantivo maschile e femminile ma più comunemente usato al femminile, come l’ultima parte, l’ultimo tempo d’una cosa, il punto o il momento in cui questa cessa [lat. finis «limite, cessazione»], secondo la definizione del lemma riportata sul Vocabolario della lingua italiana Treccani.
Micheli, deliberatamente, opta per il maschile e in uno scenario apocalittico dipana un’onirica analisi dell’inconscio collettivo che guida le dinamiche del potere ed innesca soluzioni di non ritorno verso un’ipotetica terza guerra mondiale nucleare tra gli Stati Uniti d’America di un presidente permissivo e impotente seppur «presuntuoso narcisista», Wu, «prigioniero» dei vertici militari che lo escludono dal banco di regia e ne revocano ogni legittima autorità per appagare «il loro sogno [...] di regnare [...] sopra un mondo di rovine», e la Repubblica popolare cinese del presidente Wei.
Sullo sfondo, ad alimentare i venti di un’aperta dichiarazione di guerra, anche «le politiche [cinesi] di manipolazione della valuta», che danneggiano l’economia nazionale statunitense, e «la piaga nefanda degli aborti clandestini e degli infanticidi», legata alla legge limitativa delle nascite e ad «un’alleanza di interessi per il controllo economico e biologico della classe lavoratrice cinese», che offende la coscienza di qualsiasi uomo e non consente ai giovani in Cina di disporre liberamente della propria sessualità e della propria vita.
Eppure i prodromi della catastrofe e delle sue conseguenze si erano già manifestati in Natura con le inclementi calamità di un’alluvione e di un fortunale d’inaudita violenza, con la frana a valle dell’intero costone di una montagna, col flagello di una carestia... come se, appunto, la Natura, con la sua forza devastante, volesse mettere l’Uomo di fronte alle sue responsabilità di un attacco atomico definitivo, i cui esiti ben documentava un’esposizione di cadaveri dilaniati al Museum of Modern Art of New York, «un autentico pugno nello stomaco, un’autentica strizzata alle viscere immonde del militarismo».
È un sogno, alla fine, quello che i quattro superstiti protagonisti saranno chiamati a rivelare e decifrare al presidente Wu, responsabile dell’esplosione di una devastante testata all’idrogeno che aveva «procurato tanto male a bambini innocenti, donne e uomini che coltivavano il sogno di una vita felice». Addirittura i vivi rimpiansero la morte e «le madri videro le carni dei figli aprirsi come fiori di morte»!
Da un lato, il concreto mondo occidentale di Mark e Sophie, due vite perse in momenti «di umana felicità e mutua empatia» e congiunte nell’atto d’amore fisico e spirituale che compone i loro pensieri in un’univoca armonia di percezioni e, in sintonia, genera all’unisono la domanda «Chi sono io?» e, nella «contemplazione degli eventi futuri», la concisa ed efficace sentenza: «io sono colui che sarà». Un messaggio in codice, se vogliamo, che Mark fonda sulla conoscenza del cuore e dell’anima di ogni essere umano per rigenerare una nuova vita sulla terra, per spargere «il seme da cui germoglieranno vite future».
Dall’altro, il mistico mondo orientale di Huang e Kuei Fei, disegnato attraverso le sensazioni d’amore «delle loro anime lungo il sogno, ciclico e infinito, delle morti e delle nascite», e l’osservazione di sé dall’esterno nell’«attraversare la grande acqua, e giungere infine presso ciò che sarà».
Quattro personaggi sottratti alla morte per il nobile fine della rivelazione, ma dannati «all’esperienza del fallimento delle più profonde aspirazioni».
Un romanzo, dunque, che è un distillato di densa prosa poetica dal carattere forte e deciso, ma dal tono malinconico e sentimentale, talora angoscioso, nelle altalenanti dicotomie tra guerra e pace, luce e ombra, amore e odio, felicità e dolore alla base di una trama profonda, discussa con valido spirito critico. L’ampiezza concettuale del narrato si materializza in un linguaggio cólto ed essenziale, com’é nelle corde di Micheli, giocato sulla ricerca ossessiva del lemma, che così impreziosisce le sapienti descrizioni della natura e degli stati d’animo.
Forse, ad una prima lettura superficiale, il lettore potrebbe rischiare di smarrirsi nel caotico flusso di coscienza della narrazione e perdere le coordinate di azione, spazio e tempo del romanzo, ma Micheli conosce bene le asperità e le difficoltà della propria scrittura e quindi lo invita, sternianamente, a collaborare con l’onnisciente io narrante alla conduzione dell’opera («il lettore serberà una pur vaga impressione», «se il lettore avrà in precedenza», «il lettore vorrà accettare di buon grado»), finché non sia giunto, dopo la formulazione di alcune ipotesi necessarie ed immanenti alla realtà in cui lo ha accompagnato, il momento diegetico di suggerirgli l’explicit di cui l’umanità è il vivente argomento: «Allora, forse, desidereresti vivere di nuovo l’alba dell’umanità; sapresti se, oggi, vorrai soltanto sopravvivere alla malattia che, fuori e dentro, ti contagia, oppure guarire».
Fabio Flego

Un romanzo sull’ineluttabilità della catastrofe

recensione di Monica Florio
a Il fine del mondo (Ladolfi, 2016) di Giancarlo Micheli

pubblicata in Literary n.10/2016


“Il fine del mondo” è un romanzo sull’ineluttabilità della catastrofe e, al tempo stesso, una critica all’imperialismo di quell’America che Gordon Poole definì in modo appropriato “nazione guerriera”.
L’attrito tra Oriente e Occidente, la strumentalizzazione dalla parte della controcultura, incarnata dalla body art di Katellenas, del pacifismo e dell’antimilitarismo, l’impotenza di chi governa (il ritratto impietoso del presidente statunitense Wu) rendono estremamente attuale la vicenda.
In un mondo dilaniato dalla carestia e dalla guerra, culminata nell’esplosione di una bomba all’idrogeno nelle Hawaii, l’unica speranza sembra rappresentata dall’amore fra Mark e Sophie, Huang e Kuei Fei.
Sarà proprio Mark nel suo discorso ad annunciare la necessità di una conoscenza “del cuore e dell’anima” che comporta il rifiuto del sapere consolidato, responsabile delle scelte sbagliate a cui sono state ispirate in precedenza le azioni umane.
Come una profezia, il libro ammonisce su come la nostra società sia avviata ormai verso una strada pericolosa e senza sbocchi e si fa apprezzare nonostante il linguaggio poetico talvolta criptico che fa apparire la narrazione più complessa di quanto sia realmente.
La citazione:
“Nel totale silenzio che succedette al consumarsi di un tempo, se mai possibile, ancora più breve, un alito di vento mutò dalla tiepida intensità di una brezza che vellicasse l’aria della riviera, da settentrione a mezzogiorno, fino alla rabbiosa raffica di immane calore nel cui fiato mortifero ogni essere vivente ed ogni oggetto inanimato che si trovassero entro il raggio di cento miglia furono sgretolati. La sabbia di tutte le spiagge da Makaha a Waikiki venne trasformata in vetro e, poche ore dopo, al sorgere del sole, l’alba vi specchiò i suoi colori dal rosa al giacinto quali unici e muti testimoni”.
Monica Florio