giovedì 18 aprile 2013

Elegia provinciale


recensione al romanzo Elegia provinciale (Baroni, Viareggio 2007) di Giancarlo Micheli
pubblicata in Literary Nr.11/2008

 Giancarlo Micheli costruisce una trama singolare, sospesa tra storia, mito e misurata invenzione. La figura di Giacomo Puccini viene ricostruita attraverso un racconto che ne esalta l'universo più intimo con le sue contraddizioni e il suo genio; parla della sua famiglia e del legame affettivo con persone carnali che riecheggiano quelle che vivono nelle sue opere.
  Un riflesso nella personalità del Maestro che Micheli riesce a costruire con abilità, introducendo nella narrazione elementi storici frammisti a una costruzione immaginata della trama che evidenzia il gusto dell'autore verso una rivisitazione della memoria che nella pagina diventa la viva matrice dei personaggi; personaggi che non sono i soli protagonisti, posti come sono in uno scenario e in una ambientazione che fedelmente ricalca, anche nell'utilizzo del linguaggio (in diverse parti, un deciso versiliese) la vita del tempo.
  Particolare attenzione pone il Micheli nel tratteggiare figure che attorno al Maestro recitano un ruolo di primo piano e non comprimario, con una acuta ispezione psicologica che concede a loro un ampio respiro di partecipazione e commozione.
  “E pensava che l'amore è la potenza e il negativo del potere (....) cenere al prezzo del desiderio, questo è il potere; e pensava Don Giuseppe, il male.”: la scrittura dell'autore è densa, appassionata seppure nell'apparente distacco e ricorda i moduli narrativi del verismo italiano intinti in una eleganza formale propria del gusto francese.
  Grazie alla capacità del Micheli di offrire al lettore una trama non banale e non agiografica – riferendoci alla figura di Puccini – si assiste alla creazione di un romanzo davvero interessante, da cui viene bandita ogni retorica e si mantiene intatta l'attenzione nel seguire la vicenda di ogni personaggio, ben inserita nel contesto principale.
Elisa Davoglio

il romanzo è stato ripubblicato
per i tipi della collana I Calami dell'editore Fratini

I sognatori diurni

recensione al romanzo La grazia sufficiente (Campanotto, Udine 2010) di Giancarlo Micheli
pubblicata in Nuova provincia - marzo 2013
 
 A distanza di anni dalla lettura di un celebre libro di Roland Barthes, La grazia sufficiente di Giancarlo Micheli (Campanotto, Udine, 2010) è romanzo rivelato, venuto come qualcosa che accade. Anzi riaccade come «impero dei segni», riaccade non già come mera narrazione sul Giappone, ma senza interferenze con l’idea formale dell’essai barthesiano riaccade come narrazione sospesa (sospeso è quest’haiku narrativo di Micheli) tra due realtà geoculturali, l’Occidente e (con atto d’amore e intelligenza) l’Oriente nipponico.
  Più che per ideale sovrapposizione romanzesca all’Impero di Barthes, La grazia sufficiente, autenticando un déjà–vu critico–memoriale (che è dato puramente confinato nella volontarietà del memorabile), è saliente esemplare nell’identificarsi come romanzo di montaggio. La Grazia è un film narrativo a sequenze alternate ed interepocali, valga a confermarlo l’incipit primo–novecentesco del lavoro d’usciere di Taisho presso il Nagasaki Medical College (dove si tiene un convegno di linguistica) ovvero l’età della civiltà moderna, e l’affondo, della Nagasaki di Taisho vera e propria analessi all’imbocco del moderno, nella stupenda sequenza del naufrago del Tweede Liefde, Baruch Dekker, personaggio collettore tra l’Occidente olandese e l’Oriente, un europeo del Seicento cui l’orizzonte destinale è l’approdo nipponico.
  Ma La grazia sufficiente, nei tre secoli aperti tra le vite di Taisho e Baruch espone un centro, espone l’idea del romanzo. Qui Micheli rivela – per rimanere dalle parti di Barthes – il senso obtusus, ciò che è apertura e disvelamento, ciò che spalanca l’infinito del pensiero. Al riguardo, è utile una premessa. Anzi, di più. È il riferimento ad un centro della letteratura mitteleuropea, al mito abbagliante dell’Azione Parallela, resa celebre da Robert Musil nell’Uomo senza qualità. La grazia sufficiente sembra collocarsi nel novero di quelle opere in cui il progresso della civiltà, la mitologia secolarizzata del Regno Millenario, l’ideale del mondo nuovo e la grandeur, espressa ad esempio dal colonnello Ishiwara nel prodigioso attacco del suo discorso («Il compito di civiltà che spetta alla nostra nazione…»), di per sé esprimono la condizione esemplare dell’idea, idea che nella Grazia è calibrata come mito personale di Taisho e Baruch. Sembra di udire l’eco di parole note ai fanatici dell’Uomo musiliano, parole che potrebbero affiorare dalle labbra del conte Leinsdorf o balenare come credi iperuranî dall’apostolo dell’Azione Parallela, Diotima.
  Un romanzo dell’idea è quindi La grazia sufficiente, un’idea ancipite, poiché alternata tra Taisho e l’ingresso nel «reggimento di fanteria Shimamoto», e Baruch, naufrago, amante della pittura e del teatro, ostaggio a Deshima, idea quindi che si fa Storia maior (Taisho) e storia minor (Baruch), idea che costruisce un universale di pensiero, la Storia di Taisho e la storia di Baruch come modelli riflessi in un’ideale camera a specchi, la verità della vita vissuta. La vita di Baruch, la sua storia di nipponizzazione ontologica passa dalla cultura (e dal lavoro), poiché il capitano olandese si trapianta in Giappone, mentre Taisho vive nella Storia nipponica. Ma Taisho e Baruch, tra la Storia come azione bellica e la storia talvolta edulcorata (pittura, teatro), veicolano entrambi una spiccata inclinazione memoriale. Anzi, il ricordo o la féerie adempie una funzione di schiusura del tempo, vale a dire che la Storia di Taisho (la guerra) è abitata dalla storia (le «visionarie fantasticherie», la madre, il padre…) mentre la storia di Baruch (che è soprattutto la vita con Netsuki e Aikyo) è abitata dalla Storia (il glorioso passato del Liefde).
  Se i tasselli memoriali della Grazia non segnalano presenze di proustismo nel narratore (Micheli narra in terza persona), d’indole proustiana è dunque il personaggio, non già per la mania di memorialità, ma per un certo modo di apparire della memoria come via che rigenera, così in Taisho come in Baruch, via che si rigenera nel memorabile. Ma la storia (maior e minor) e la memoria, il memorabile della vita, nella Grazia sembrano salire a un’acme, poiché condizione inderogabile della sua identità, a un saliente inatteso della narrazione: la violenza. Che è come dire che la Storia (maior e minor) si rivela quel che è: violenza dell’uomo all’uomo. La memoria è quindi un antidoto alla violenza, una droga necessaria a neutralizzare il reale per il sogno, il vero per l’ideale, l’immanente per l’idea trascendente.  
  Non a caso, appena il memorabile scava nella memoria di una recherche autobiografica (in Taisho e in Baruch), la violenza si fa nome della storia. Non vi è quindi confine tra l’orizzonte multiculturale di Baruch e le res gestae di Taisho, la violenza (la faida religiosa nelle visioni, la vita a Deshima per Baruch, la morte del compagno Taro sul campo di battaglia, la morte della madre per Taisho) satura la scena, brutalmente scardinando la tentazione del rivissuto memorabile, e così inchiodando il destino (anche del romanzesco), al vissuto tragico dell’esperienza.
  La grazia sufficiente vira dunque altrove: il memorabile della memoria si fa immemorabilità nella violenza. Ma il destino di vita violenta, di storia violenta per il militare Taisho o per il “forzato” Baruch, tra la libera volontà di combattere con l’esercito giapponese (Taisho) o di esserne prigioniero (Baruch a Deshima), tra la guerra e la «vita in cattività», nella sintesi morale di Baruch matura in un’epopea del rifiuto. All’amico Cornelisz van Nejenroode e al dolore manifestato per la vita di Deshima (intesa irreversibile), Baruch oppone non già la speranza della redenzione, oppone semmai scetticismo riguardo alla «dottrina della predestinazione o della grazia sufficiente», un empito di scetticismo autenticato dall’epica fuga notturna dall’isola dopo avere ritrovato il proprio amore perduto, Netsuki.
  Se Baruch sovverte l’idea di predestinazione (guadagnando alla storia l’aureola perduta della felicità), Taisho prova a sovvertire il destino, «incrollabile nella sua risoluzione di vedere la madre», benché al suo ritorno dalla guerra, Araki (un vicino di casa) confessi al giovane l’avvenuta morte della donna. Ricomporre la tela infranta della vita, per Baruch culmina nella riconquista del tempo perduto (il tempo ritrovato di Netsuki), nella cancellazione della storia come violenza, per Taisho nello sprofondamento al nulla, o meglio in una caduta apocalittica (la coscienza della morte materna) vissuta quale condizione preliminare e unica per ricollocare sé nel mondo, sia anche attraverso la più remota possibilità – che è parsa un’indimenticabile quanto involontaria citazione dell’Atalante di Jean Vigo –, l’esercizio dell’immaginario, rivedere come in sogno una figura di giovane donna (déjà–vu e desiderio), rivedere, nella potenza di un’epifania mentale, di un’ennesima razos visionaria, l’oggetto creaturale di un’allegoria, unica via per ricondurre al tempo dell’essere ciò che ormai non è più: la madre perduta, la vita sognata.
Neil Novello

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mercoledì 10 aprile 2013

Struggle for revolution


recensione al romanzo Indie occidentali (Campanotto, Udine 2008; Premio internazionale “Nuove Lettere” dell’Istituto italiano di cultura di Napoli - XXII edizione) di Giancarlo Micheli
pubblicata in Erba d’Arno (n.130/1, autunno 2012 - inverno 2013)




   L’empatia tra lo scrittore e il proprio mondo scritto è il primo rilievo esemplare di Indie occidentali (Campanotto, 2008) di Giancarlo Micheli. Scrivendo, Micheli abita il mondo che scrive, lo abita perché al romanzesco affida un compito esemplare, rivelare la realtà attraverso la sua agnizione. Riconoscere la realtà, in Indie occidentali è riconoscere il destino di Aurelio ed Erminia, emigranti italiani tra New York, Chicago e Paterson, creaturalità sospese tra due dimensioni: lo struggle for life e lo struggle for revolution.
   Empatia e agnizione, dunque. E lingua. Micheli è anzitutto un grande scrittore, è un narratore di “prima”, un cesellatore d’incanti linguistici. A rigore, la lingua del narratore stacca verso l’alto del sublimis, la lingua dei personaggi riflette una polifonia propria al basso del piscatorius. Micheli parla la lingua dello scrittore culto, il personaggio, un’altra lingua, la lingua della sua cultura. Non è un caso, è uno studio, è l’onestà. Verrebbe da scrivere, la bellezza interiore di ciò che nel romanzo più immane: lo stile.
   Il marxismo linguistico di Micheli non è però un mero fatto di stile, è la coscienza sociologica di chi guarda alla lingua in prospettiva plastica, vi guarda con l’immedicabile amore con cui si guarda un mondo da un ideale rasoterra. Ecco perché Indie occidentali chiama anzitutto al dovere della responsabilità. È un abitare il proprio mondo, che non specchia una pura visione del mondo, non è un’ideologia, è l’isolarsi nell’accanto della nuda vita sottoproletaria. Al fondo del Maëlstrom, già una figura emerge sovranamente, un tipo del Pasticciaccio gaddiano o di un qualunque Riccetto pasoliniano: è Venanzio. La lingua di questo indimenticabile “borgataro” di New York è tutta la sua complessione antropologica: la nuda vita vivente di musulmänner, di dochodjaga.
   Se Venanzio abita l’ideale fondo dell’inferno, un inferno cui Micheli dà forma di contenuto, Indie occidentali è una spirale, un Maëlstrom per l’appunto rincamminato dal narratore, spira dopo spira, alla ricerca dell’alto. È un romanzo d’inabissamento e riaffioramento: Venanzio, certo, ma anche i protagonisti, Aurelio ed Erminia, il Sor Clemente, la sociologa marxiana Sophonisba, il fidanzato economista Jack. Un romanzo dell’interclasse, un romanzo–universo, un romanzo epigono, epigono – lo si può dire brutalmente – della grande tradizione russa: Dostoevskij, soprattutto Čechov.
   D’apocalisse in apocalisse (l’incendio del bar di Aurelio), di speranza in fuga, l’abbandono di New York è anche la cancellazione tragica dell’american dream, di quel che Baudrillard figurava come la città di chi pensa solo, canta solo, mangia solo, parla solo. È l’America d’America. Dimenticare New York a Chicago. Un segno della svolta tragica in Aurelio ed Erminia è il coatto regresso di classe, lo sprofondamento destinale: dalla middle class newyorkese alla caduta, la vita proletaria, la via all’epopea del ricominciamento. Per Aurelio ed Erminia è perdere il primato per lo scacco, per il narratore è accendere il fuoco del politico. Nasce la fedeltà all’inerme. Tra il tragico creaturale e il politico narratoriale, Indie occidentali svetta. Il romanzo è develato, appare come pretesto a sé:
  
   Lo stato delle cose adesso sussistenti è la virtualizzazione della società, un dilagare panico di moventi individuali tanto artificiosi quanto efficaci, impersonali e disanimati; è il dominio dell’inesistente corroborato nei fatti della vita fino alla verità assoluta ed ubiqua del codice di tutte le disciplinate liturgie, politiche, economiche, esistenziali, psichiche, religiose, relativistiche ciascuna imposta dal consenso di illusori adepti. Questa pur sintetica digressione serva a chiarire il senso della ricerca nel passato attraverso la presente narrazione.
 
   Il romanzo è alla confessione. Anche l’autore di Indie occidentali. Il passato è pretesto (predestinazione), cardine al presente. È fonte di comprensione culturale. L’odissea di Aurelio ed Erminia culmina nelle lotte sindacali a Paterson (Aurelio è operaio e lotta contro il padrone Catholina). Quando lo struggle for life non può che essere struggle for revolution, lì rivela l’impensabile. Il presente storico, il regno del dominio capitale, è solo una pallida corruzione dell’epopea sacrificale dei nostri padri. Indie occidentali diviene. O si rivela quale documento di una traslata autobiografia dell’interiore, la testimonianza del segreto dolore per un mondo, questo umanissimo del romanzo, in cui Micheli sublima con accanita passione un destino mai venuto a noi. Una promessa (forse) mancata, se poi Eugenia, la figlia di Aurelio ed Ermina, è l’ala futura che non tradisce il passato. Anzi recupera in simbolo (la costruzione di un teatro: la rivoluzione di Erminia e Aurelio sarà allegorizzata al Madison Square Garden) proprio la grande lezione del padre e della madre.
Neil Novello