lunedì 8 novembre 2021

Verses versus capital (Effigie, 2020) di Giancarlo Micheli

impressioni di lettura di Marino Tarizzo

pubblicato su Literary (n.11/2021)

 

Qualche anno fa, in un circolo Arci di Torino, si svolgevano serate in cui un autore veniva esaminato, sezionato, eventualmente scorticato da un gruppetto di giovani virgulti delle patrie lettere. Mi toccò in sorte di essere stroncato poiché reo di aver inserito in un testo una parola rara, inconsueta. La poesia deve essere facilmente comprensibile da tutti, sostenevano. Me ne feci una ragione e continuai a concordare con Gramsci, Don Milani e Dario Fo per i quali conoscere una parola nuova era un modo per difendersi meglio dal padrone. Per questo devo ringraziare la lettura di Verses versus capital di Giancarlo Micheli, per avermi dato modo di apprendere e/o di ri/conoscere una serie di lemmi di non comune uso (mi sono divertito a contarli, grossomodo: sono almeno una quarantina). E tutto questo in un contesto dove l’analfabetismo di ritorno (solo quello?) è rivendicato quasi come una nuova “libertà”; ma il mio grazie e la mia gratificazione vanno oltre l’uso di queste parole, sono relative al linguaggio usato dall’Autore. Un linguaggio magmatico, in continua e piena ebollizione, inondazione, ma tutt’altro che caotico, incanalato dall’Autore (presumo non senza fatica) verso l’approdo ustionante ma coinvolgente della propria evoluzione/rivoluzione linguistica, insieme all’apparenza respingente e, in uno, del tutto affabulante. L’Autore vi trova evidente appagamento nell’assemblare aulicità, formazione culturale e ricercatezze stilistiche con espressioni anche quotidiane, di uso comune o paraproverbiale, seppure rivoltate di senso, in dis/senso. Un paio di esempi: “Ad ogni suicidiota la sua supercazzuola” (Muratorio). “Dove la tecnica divisione/ Del lavoro da fare” (Il mare tra le terre). Percorso che lo porta, in un mondo dove la libertà tutt’al più è fraintesa con il concetto di privacy, alla destinazione di proporre rigorosi versi liberi/liberati/liberanti. Una scelta che, oltre a quella tematica, parimenti impegnativa, di sicuro gli regalerà un ulteriore motivo di “embargo” nei suoi confronti. Ciò gli consente, da un lato, di condursi tra versi quasi usuali d’amore (“Appena ti ho sentita/Qua dove sono è uscito il sole/Ed anche questo è un caso/Di cui è bene tener conto”, I passi ritrovati), ma contemporaneamente non gli impedisce, scrivendo, di giungere pari pari alle arti visive: il verso/titolo “Uomo di stile con randello” è indubitabilmente Magritte!

Poco sopra accennavo alla tematica di Verses versus capital, titolo programmatico, e pertanto lascio alla lettura del libro il relativo pieno nutrimento. Mi preme soltanto introdurre un aspetto apparentemente marginale tra i temi trattati. Potrà sembrare inconsueto per un poeta, un letterato, un filosofo, un umanista, ma in alcune parti del libro, non solo ne La presa di Wall Street, l’Autore ci parla anche di economia. D’altronde chi, se non un poeta, può parlare di un qualcosa di inafferrabile e di oscuro? En passant: ovviamente sappiamo che Wall Street non è più la sede dell’Impero, cfr. Senato dei Fondi e non solo. Forse nel libro di Micheli, però, in uno dei tanti sotto/metatesto, c’è come una tensione ad andare oltre: come se, silente, strisciante, una domanda si rotolasse tra i versi, inespressa e non so quanto consapevole. Questa domanda: ha senso, ha ancora senso la critica al capitale? Certamente sì, è la risposta. Ma è sufficiente? O criticare il capitale equivale a riconoscerne comunque un suo aspetto valoriale, in un certo senso ad accoglierne la cornice entro cui opera? Non è forse il caso, anche per uscire dallo stallo culturale da ridotta manco più assediata in quanto totalmente ininfluente, di principiare seriamente a ragionare sull’innaturalità dell’economia stessa, come storicamente conosciuta, sulla sua struttura culturale tanto estrema quanto costringente ma pur sempre totalmente effimera? Ovvio che mi sovvenga il Serge Latouche de L’invenzione dell’economia. O è solo il luccichio del verso “L’economia che poni nella fede” (Senza dottrina) che mi abbaglia?

A un Autore che scrive, tra le altre, La Resistenza è facile arguire l’effetto che deve aver fatto il trovare bandito dal linguaggio comune la parola ‘resistenza’, sostituita con ‘resilienza’. Parola questa che, se ristretta al mondo fisico, ha un significato, ma se rapportata a un complesso organismo sociale forse non è facilmente sovrapponibile, anzi ne è percepibile il suo rinculare di significato, quasi una mezza resa preventiva. Per altro verso, nel libro (L’incontro) si legge “Che l’Apocalisse sia in atto/ Non è il male peggiore” e (Sortie de l’usine) “Devi comunque mettere le mani in questa merda/ Come il bambino dentro al pozzo”. Ora, decontestualizzando le due citazioni dai singoli testi, forse è vero che qualcuno, magari neanche pochi, percepiscano l’irrimediabilità del disfacimento, ma a ben vedere, tutto sommato, dell’Apocalisse gliene frega scarsamente e dentro a questa merda si sentono (ma soprattutto, ci sentiamo) bene, al caldo, comodi. Allora, forse, l’interrogativo cela un’iperbole affermativa nel verso “che può farmi l’Apocalisse?”. Ciononostante, in una sorta di ottimismo della felicità ventura, l’Autore (Bere o annegare) intuisce che “Cammineremo sulle acque/ Bevendo il vino della fratellanza/ E spezzando il pane della giustizia”, che fa il paio con: “Umanità nuova/ Partoriscici”, e trova la forza (ancora!) per disegnare e disegnarci un futuro migliore o almeno un futuro. Una nuova alba. Ecco, io non so chi sia Giancarlo Micheli, nel senso che non so e non mi interessa se il suo approccio culturalmente di classe sia più, stando ai testi presenti in questo libro, comunista, anarchico o sensibile a echi di un cristianesimo radicale. Così come non mi interessa spolverarlo di una spruzzata di ossimorico nichilismo ottimista. Questi sono compiti per salariati dell’aria fritta. Penso in generale che far giocare il gioco dell’‘io sono il più bello’ faccia il gioco, appunto, del capitale. Ma Giancarlo Micheli, dopo aver scritto questo libro, è probabile che abbia maturato qualche idea più precisa, o abbia precisato ulteriormente la propria idea, su chi lui è rispetto a quando lo ha iniziato (“Santa dell’innocente la ragione/ Santo il diritto di uccidere il padre/ E di sopprimere il padrone”, Rivoluzione). Non necessariamente ciò lo renderà più gradito al variegato mondo dell’industria culturale contemporaneo (lettori compresi), poiché troppo “congiunto al terzo pianeta/ del sistema solare/ da vincoli d’amore”.

Marino Tarizzo


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