mercoledì 30 ottobre 2019

Una scrittura insurrezionale


recensione di Tomaso Kemeny

a Romanzo per la mano sinistra (Manni, 2017) di Giancarlo Micheli

pubblicata in “Odissea”, maggio 2019



La sinistra cui il titolo fa riferimento è quella della rivolta permanente, non ideologica ma, proprio in virtù di ciò, in grado di tracciare un romanzo epico-epistolare, storico-politico, dalla propaganda di stato della dittatura fascista alla dittatura del regno mediatico globale. È una scrittura che ritengo insurrezionale proprio in quanto rifugge dall’ideologia, per richiamare esistenzialmente in vita gli eventi senza imbrattarli con pregiudizi tendenziosi, così da lasciar intendere, entro i vari contesti, le reali situazioni. Merita qualche considerazione l’impresa di questo figlio di Viareggio, là dove Shelley fu gettato dalle acque perché vi fosse arso sul rogo, ma il suo cuore non poté esser distrutto, come in genere il cuore dei poeti sfida le fiamme; per cui non è un mero caso se al genio di Field Place, una decina d’anni prima di questo romanzo, Micheli dedicasse un’opera di poetica dal titolo Il cuore e l’ombra viva. Il romanzo unisce il senso della storia con gli accenti contemporanei d’un Foscolo, autore delle Ultime lettere di Jacopo Ortis. Qui compaiono invece le lettere che Stefan Bauer, un ebreo moravo, manda al figlio, Bruno; ne risulta un testo che tocca l’oggettività storica e mostra la tragedia di un popolo che ha avuto l’ultimo sprazzo di rinascita, secondo l’autore, coi movimenti studenteschi degli anni Sessanta e Settanta. Penso che questo libro sarebbe piaciuto a Leon Trockij, perché è un libro della rivoluzione permanente, uno sguardo non corrotto dalla burocrazia e neppure venduto all’interesse del denaro, uno sguardo d’una innocenza inquietante, che ci consegna un’opera la quale, a mio avviso, è un evento. Quand’anche non si condivida il punto di vista dell’autore – sia il narratore epistolare, sia il narratore in terza persona sono permeati dalla visione rivoluzionaria –, anche chi non avesse la medesima visione può sentire la vita di questa bellissima penisola, una vita che non è comica come nelle immortali opere di Rossini, bensì tragica, a molti livelli. Questo romanzo, insegnando la tragedia, è un romanzo catartico. Dunque, onore ad Aristotele, il quale pensava che la scrittura potesse purificare sia i colpevoli che gli innocenti, anche perché tra gli esseri umani di innocenti – e non è mai ogni volta soltanto una notizia d’attualità – non ce ne sono, tantomeno colui che scrive. Infatti, non è certo per acuire la tragedia se, a conclusione di questa breve nota, mi viene di aggiungere una memoria. Durante gli anni Sessanta il poeta Louis Aragon, cui chiedevo quale fosse la tragedia dell’uomo, mi rispose, da buon surrealista basandosi sul soggetto e non sul sociale, consistesse nell’indifferenza.

Tomaso Kemeny














Il Tao dell'armonia interiore


nota di lettura di Giancarlo Micheli

a Neiye. Il Tao dell’armonia interiore, a cura di Amina Crisma (Garzanti, Milano 2015)




Gli Stati Uniti stavano per entrare nell’ultimo anno dell’amministrazione Reagan, demoticamente nota quale governo esemplare d’un attore professionista, quando l’ampia platea del Wortham Theater Center di Houston assistette alla prima rappresentazione dell’opera lirica Nixon in China. Il melodramma, lungo le accensioni ritmiche dell’impianto minimalista soggiacente la partitura di John Adams, musicista omonimo del secondo presidente (1735-1826), descrive la visita che il trentasettesimo, Richard Nixon, aveva compiuto quindici anni avanti, ricevendo onori di Stato dal presidente del Partito comunista cinese Máo Zédōng e dal Primo ministro della Repubblica popolare Zhōu Ēnlái. Non si trattò di un evento di secondaria importanza nella storia diplomatica del Secolo breve, tant’è che non sia azzardato sostenere che le basi delle intese allora imbastite costituiscano tutt’oggi una delle più serie ipoteche gravanti sull’avvenire di un mondo infine abitabile, libero dai confini attorno ai quali la violenza si organizza quale principio antropologico, carattere distruttivo ed apocalittico destino. Il richiamo alla produzione teatrale texana ha lo scopo, che non sarebbe onesto dissimulare, di ribadire un’ovvietà: quanto meglio al di là dell’Atlantico la stessa società dello spettacolo risponda alle istanze di contatto e compenetrazione tra le culture di quel che non avvenga nel Vecchio continente, dove una prevalente ipocrisia, burocratica e formalista, asseconda regressioni identitarie, latenti nelle esperienze dei totalitarismi novecenteschi non assimilate in senso evolutivo. Bene fa dunque Amina Crisma, nella estesa introduzione alla versione italiana del Nèiyè, uno dei classici del daoismo antico, ad insistere sui tanti pregiudizi che sono andati ad attecchire nel senso comune e dei quali solo una volonterosa cernita delle fonti filologiche può aver ragione. Così come la curatrice ci dissuade con assennatezza dalla tentazione di ridurre la complessità del pensiero filosofico in Cina alle tesi sostanzialmente pacifiste del confucianesimo, rammentando, tra altre, le sentenze di Xúnzǐ (313 a.C-238 a.C.), insigne precursore della scuola legista o fǎjia (fondata da Hán Fēizǐ, 280 a.C.-233 a.C.), secondo la quale la natura dell’uomo è in origine malvagia e soltanto una rigida educazione, non ignara dell’efficacia di pene corporali, riesce in parte ad emendarla, allo stesso modo noi possiamo solo auspicare, o tutt’al più congetturare ipotesi di convalida previo un attento ascolto delle incisioni, che la librettista Alice Goodman ed il compositore, nel dar compimento all’atto creativo, avessero consapevolezza del fatto che nel tempo in cui il plot è ambientato, durante gli anni centrali della Rivoluzione culturale, godesse di una riabilitazione in piena regola un personaggio storico lungamente stigmatizzato dalla tradizione della scuola rújiā, composta dagli adepti del sommo Kǒngzǐ  (551 a.C.-479 a.C). Questi, alla cui parabola esistenziale Xúnzǐ ispirò le proprie riflessioni, fu un talentuoso “letterato” nel cuore del Periodo degli Stati combattenti (453 a.C.-221 a.C.), nativo dello stato di Wèi ma passato al servizio del rivale di Qín, alla cui guida promosse una politica espansionista; ottemperante al dogma che il bene del Regno debba prevalere su quello dei sudditi, impose la ferrea disciplina che avrebbe condotto, anche in virtù d’un gran numero di emuli e fautori che ne avvalorarono i precetti nel corso d’un ulteriore secolo di belligeranza, al costituirsi dell’impero Qín (221 a.C-206 a.C.). Gli storici marxisti cinesi, durante gli anni Settanta del secolo scorso, tendevano appunto a rivalutare l’operato di Shāng Yāng (390 a.C.-338 a.C.), vedendo in lui un capostipite nell’uso della violenza rivoluzionaria contro i privilegi aristocratici sanciti dall’ideologia confuciana. Agli ultimi anni della vita di Shāng Yāng, o a quelli immediatamente successivi alla morte cruenta che incontrò dopo esser caduto in disgrazia presso il suo stesso patrono, gli orientalisti pongono, oggi, la datazione del Nèiyè, appartenente al corpus di un’altra scuola ancora, la daoista, emersa in concomitanza alla progressiva diffusione del buddismo Chán e sostanziata nei testi canonici del Dàodéjīng – il Libro della Via e della Virtù attribuito all’ineffabile Lǎozǐ, di cui è tuttora aperta tra gli specialisti la questione della storicità, laddove il mito lo immagina addirittura, sullo scorcio conclusivo del cammino personale verso la saggezza, pellegrino nella lontana India, dove sarebbe stato finanche il maestro del Buddha – e del non meno favoloso Zhuāngzǐ, la quale si discosterebbe dalla più saldamente radicata rújiā, al netto delle precisazioni che l’amor di brevità impone qua di tralasciare, in misura del diverso contegno consigliato al jūnzi, l’uomo esemplare, per quanto attiene al diretto coinvolgimento nella prassi politica, senza con ciò inficiare il dato storico che, al compiersi dell’unificazione del territorio in un consistente nucleo imperiale, il primo sovrano, Qín Shǐ Huángdì (260 a.C.-210 a.C.), ordinasse, al fine di preservare l’integrità del dominio dalle faziosità del dibattito filosofico, il rogo dei libri di tutti gli orientamenti, compreso quello di Mòzǐ (479 a.C.-381 a.C.), intento ad emendare la dottrina confuciana affinché il cardinale principio del rén, la benevolenza verso l’umanità, non dovesse abbracciare soltanto i propri congiunti e gradatamente attenuarsi verso i restanti estranei, bensì la totalità dei propri simili, inclusi altri di cui non è possibile dar conto, tant’è che, ancora adesso, a ricomporre i frammenti di quanto salvato, non si tragga un disegno più chiaro di quello che dovette balenar nelle menti agli oppressi che ne saggiarono le tenebre contemporanee. Il Nèiyè, dove si insegna che «l’uomo esemplare fa uso delle cose, non si lascia usare dalle cose, poiché coglie il principio ordinatore dell’unità», «se regoli il corpo e raccogli in te la Virtù efficace (dé), la benevolenza del Cielo (Tiān) e la giustizia della Terra (Dì) verranno da sé in sovrabbondanza», «quando il cuore (xīn) ben regolato si mantiene nel mezzo, i Diecimila esseri conseguono la giusta misura», finché si è in tempo, il Libro della coltivazione interiore è dunque un nodo propizio da cui prendere a dipanare l’intrigo che la storia tesse attorno alle coscienze, per erodere le barriere che segregano i popoli nella reciproca ignoranza, incamminarsi sulla via di una sapienza infine monda dalla barbarie.

Giancarlo Micheli

venerdì 25 ottobre 2019

Pellegrino a Port Bou


articolo di Giancarlo Micheli

pubblicato su Il Grandevetro (Anno XLIII, n.241, Autunno 2019)



Sovente, nella tossica nube mediatica che arrochisce ed attosca la voce umana fin nelle conversazioni da bar, il cui salace piscatorius è peraltro ormai involuto nei linciaggi e nei culti di infime personalità costituiti quale produzione segnica efficace all’interno del frenetico vaniloquio delle cosiddette “reti sociali”, per via di tali mezzi di produzione del gusto e finanche della logica contemporanee, si sentono citare, sempre più spesso, mortificanti statistiche riguardo alle scarse facoltà di lettura ed interpretazione anche del più semplice testo cui incorrerebbero oceaniche maggioranze tra i virtuali parlanti, i quali fanno quel che possono per adeguarsi al canone linguistico in vigore. Se gli fosse ancora accordato di esercitare il giudizio su simili dati, Walter Benjamin ne trarrebbe verosimilmente motivo per suffragare il pessimismo che lo persuase, nel settembre del 1940, a porre fine ad una vita che aveva fino ad allora dedicato allo studio ed alla riflessione filosofica. La decisione maturò durante un viaggio, che alle caratteristiche archetipiche del nòstos epico o dell’esodo ebraico, sovrappose le novecentesche della fuga. Data la brevità dei tempi che corrono, si potrà accennare solo en passant, senza alcuna velleità di intercettarne la dinamica esponenziale, alla diffusione che è intanto andata facendosi capillare della fattispecie del viaggio come fuga. Dall’Africa intestina fuggono in nugoli e legioni, braccati dalla miseria che i profitti delle multinazionali, proprietarie di risorse materiali e biologiche, largiscono a titolo di inderogabile crisma del credo neoliberista, inverato nei regimi locali, schietta espressione di una perseverante connivenza con le cupole finanziarie globali – in un “originario” vuoto legislativo si svilupparono infatti, anni addietro, le pratiche criminali emerse poi all’evidenza nei campi di detenzione libici ed altrove; quando, in seguito, le istituzioni europee investirono liquidità e competenze giuridiche per imporre ad alcune ex-colonie, situate sulle direttrici della tratta, una legislazione repressiva, l’effetto che ne scaturì fu la parziale legalizzazione di quanti non recedettero a lucrare sui traffici, nonché un aggravio delle efferatezze perpetrate contro coloro che non ebbero altra scelta se non di continuare ad affidare ai primi le loro sempre più flebili speranze –. Sebbene meno cruenta, è purtuttavia un’evasione pure il viaggio com’è istruita a consumarlo la working class del primo mondo, la quale, avvalendosi dei progressi tecnici dei mezzi di trasporto, attende ai rituali della vacanza alla stregua d’una liberazione, a tempo rigorosamente determinato, dal giogo di un lavoro viepiù alienante e meno creativo, quand’anche regga ancora, almeno in qualche comparto, la concorrenza dell’intelligenza artificiale, contuttoché ne risulta un’infaticabile pedagogia alla defezione dalla lotta di classe, che invece, qualora fosse condotta nelle varie patrie con lungimiranza internazionalista, colpendo, ovunque possibile, gli interessi del potere economico-finanziario, costituirebbe l’unica strategia valida per “aiutare a casa loro” gli immigrati, del cui flusso, inestinto e, in termini tutt’altro che episodici, esiziale, il banale interesse all’abbattimento del prezzo della forza lavoro rimane il primo movente. Vediamo, dunque, di non perdere la coincidenza, che pare offrirsi fortuita, tra i casi generali della specie, i cui individui appartengono in maggioranza di ora in ora schiacciante ad un multietnico popolo d’oppressi e sfruttati, ed il destino di un intellettuale in fuga dal più chiaro esempio di totalitarismo che la storia del “secolo breve” abbia conosciuto. Prima ancora che Hitler coronasse il sogno, vivaddio effimero, di veder garrire le croci uncinate sui boulevards parigini e di visitare in tutta pace il mausoleo di Napoleone agli Invalides, allo scoppio delle ostilità, Walter Benjanim, che al pari di altri antinazisti aveva trovato rifugio tra Svizzera e Francia, fu nel nutrito gruppo di cittadini tedeschi internati allo stadio Colombes, quello in cui si erano svolte le Olimpiadi del 1924, al tempo in cui egli faceva la conoscenza di Ernst Bloch e dell’opera di György Lukács, tanto da essere attratto fin da allora nell’orbita della critica marxista. Rilasciato grazie all’intervento di amici influenti, allorché venne l’occupazione, riuscì a sottrarsi alla cattura e a raggiungere Marsiglia. Da qua, assieme alla vedova Henny Gurland e al figlio diciassettenne di lei, decise di attraversare i Pirenei con l’intento di ottenere un visto di transito per il Portogallo e, infine, imbarcarsi per gli Stati Uniti. A Port Bou, invece, le guardie di confine franchiste lo trattennero per esporgli quale fosse il loro dovere: riaccompagnarlo alla frontiera, dal momento che era sprovvisto di un documento valido, che ne attestasse la nazionalità. In preda all’angoscia, si avvelenò con un sovradosaggio di morfina. Se è probabile che, mentre aspettava di addormentarsi un’ultima volta, ripensasse all’amico di gioventù, il poeta Fritz Heinle, suicida alla vigilia della Grande Guerra, oppure rammentasse le non poche occasioni in cui, dinanzi ai segni premonitori dell’incipiente barbarie, aveva meditato di togliersi la vita, come annotò nei diari, o ancora gli sovvenisse del fratello Georg, che da lì a due anni sarebbe stato ucciso nel campo di concentramento di Mauthausen, rimane un enigma, passibile di venir scalfito solo a forza di congetture, quale fosse il contenuto della voluminosa borsa di cuoio che portava con sé, come testimoniato dalla Gurland, e che sarebbe stata invece sequestrata e mai più restituita. Nessuno può dunque negare che, accanto ad una versione riveduta dei Passegenwerk, pubblicati postumi solo nel 1983, potesse trovar posto qualche appunto nel quale avesse sviluppato il tema di una conferenza tenuta cinque anni prima, il cui testo sarebbe apparso sul numero del luglio 1970 della «New Left Review». In questo testo, dal titolo L’autore come produttore, Benjamin sosteneva che «la tendenza politicamente corretta di un’opera include le sue qualità letterarie, poiché include le sue tendenze letterarie», le quali «si possono riconoscere nel progresso o nella regressione della tecnica letteraria»; discerneva, poi, tra gli scrittori autenticamente rivoluzionari e gli scribacchini al servizio del capitale – i quali ultimi poteva esemplare al lettore negli esponenti della Neue Sachlichkeit mentre oggi non avrebbe che l’imbarazzo della scelta ad indicarli in una ulteriormente oceanica maggioranza – secondo il criterio per cui i primi concepirebbero l’opera come un mezzo di produzione, un impulso all’agire politico, laddove per i secondi non si tratterebbe altro che di un articolo di consumo, un oggetto di piacere contemplativo.  Il compito che lo scrittore deve porsi «non è di trasmettere semplicemente l’apparato di produzione», bensì «di trasformarlo nella massima misura possibile in direzione del socialismo». Ed ecco infatti che, proprio al momento di concludere, il tempo che, un istante fa, sembrava volgere precipitosamente alla fine, rallenta e concede uno sguardo inatteso, simile a quello che il celebre angelo delle Tesi di filosofia della storia getta sul cumulo di macerie del passato mentre la tempesta che si sprigiona dal paradiso gli s’impiglia nelle ali e lo trascina verso il futuro cui volge le spalle, sicché confessi con ingenua letizia di aver a lungo ben lavorato sui mezzi di produzione del linguaggio in opere come Indie occidentali, La grazia sufficiente, Romanzo per la mano sinistra ed altre, né mi pare del tutto da escludere fossero già contenute in quella valigia, scomparsa ai piedi dei Pirenei, per la quale desideriamo, insieme al volonteroso lettore di codeste rapsodiche note, buone mani cui affidarla, poiché ciò che decide non è il pensiero individuale, ma l’arte di pensare ciò che è nella testa degli altri, affinché mutino entrambi nel senso dell’umanità nuova.

Giancarlo Micheli

domenica 5 maggio 2019

Casa della Cultura di Milano


registrazione della presentazione di Romanzo per la mano sinistra (Manni, 2017), che si è tenuta martedì 30 aprile alla Casa della Cultura di Milano, con il patrocinio di ANPI provincia di Milano.



Relatori: Tomaso Kemeny, Gabriella Valera, Chiara Catapano e l’Autore.

Letture dal romanzo a cura di Ilaria Pardini e Luigi Scala.



LaFeltrinelli
ibs
inMondadori
Libreriauniversitaria
Amazon
Libraccio
Unilibro
Hoepli
SanPaolostore
Manni editori

Per una poetica liberata

articolo di Giancarlo Micheli pubblicato su
 Il Grandevetro (trimestrale di immagini, politica e cultura)


La Storia, soprattutto a guardarla con occhi vigili e spalancati, quali se ne dischiudono, a guisa di prodigiosi fiori d’innocenza sotto l’erba delle ciglia d’ogni nuova generazione, è una decrepita e macilenta etera, gravida di crimini immani e manifesti, che ammicca sul ciglio delle strade maestre ai prosseneti di una personale sequela di complementari e reconditi. È comune fortuna che il fuoco dell’amore ancora divampi in quest’inferno. Manca ormai un ristretto giro d’orbite, le quali si conteranno sulle dita di due mani a patto che colgano intanto l’una dall’altra una carezza e un graffio, avanti sia trascorso un secolo da quello che i documenti della protratta infanzia capitalistica, fase suprema della preistoria dell’umanità, pongono in breccia alla cosiddetta Grande Depressione. In un solo giorno, il giovedì 29 ottobre del 1929, le cedole di credito che rappresentavano poc’anzi l’equivalente d’una virtuale opulenza e d’uno schizofrenico dispendio, non valsero la carta su cui erano stampate, destino entropico dell’economia pseudo-darwiniana d’una millenaria eredità necrofaga; ne seguirono tali prodigi, in miseria e nequizia, che non se ne uscì altrimenti che con il vile ricorso all’ecatombe della guerra mondiale. Tristemente facile l’analogia con le vicissitudini attuali, sicché se ne debba concludere che quell’apparente uscita indichi ancora adesso l’entrata ad un più profondo abisso. Era trascorso poco più di un mese da quell’epifania contabile del cannibalismo finanziario, che sarebbe andata depositando i propri fetidi crismi sulla vita al pari di quanto accade di nuovo, tant’è che i simulacri predittivi di cui fa appannaggio la scienza borghese vi rivelassero, già allora, l’intima natura di feticci atavici e sanguinolenti, era trascorso forse non invano quel ciclo lunare, quando dalla Librairie José Corti, in rue de Clichy, tra la Gare Saint Lazare e Pigalle, venne licenziato per la stampa quello che sarebbe stato l’ultimo numero de “La Révolution surréaliste”, il dodicesimo dell’intera serie, giunta in quel frangente, fatidico non meno di altri che lo precedettero e lo avrebbero seguito, al quinto anno. Sotto le impronte di sette coppie di labbra femminili che stanno a guisa d’aferesi concreta al Second manifeste du surréalisme, firmato da André Breton a pagina 17 (diciassette, come l’Arcano maggiore delle Stelle), invano l’odierno cultore della materia ricercherebbe un estratto dalla rivista “Annales Médico-psychologiques”, escusso, nella fattispecie, dal secondo tomo dell’ottantasettesima annata dell’organo dei gallici alienisti, il quale venne invece anteposto, in luogo d’epigrafe, all’edizione in volume destinata alle rotative da lì a breve, per i tipi delle Éditions Kra, trai quali fu già disponibile alla fine di marzo del 1930. Breton, alle spalle l’apprendistato clinico alla Salpetrière ed ormai navigato tra i flutti della contesa ideologica, scelse di riportare la petizione che l’insigne psichiatra Paul Abély aveva rivolto, tramite le prestigiose colonne dell’ippocratica testata, a chi di dovere, affinché fossero adottati i provvedimenti acconci a reprimere tutta una seria di aggressioni subite dai colleghi nell’esercizio delle loro funzioni terapeutiche per mano di coloro stessi cui le prodigavano. Il luminare si era spinto ad un atto tanto assertivo da profilarsi alla cognizione personale nei termini d’un civico ardimento in piena regola, laddove, addebitando la causa delle proditorie violenze alle istigazioni contenute in un testo che «circolava liberamente tra le mani di altri alienati», deplorava apertamente la rivista letteraria colpevole di averlo pubblicato, il 25 maggio del 1928: “La Nouvelle Revue Française”, che egli non avrebbe esitato, qualora gli fosse stata concessa la libertà di esprimersi nel linguaggio egemone tra gli italici odierni, a tacciare di “radical chic” o molto peggio. L’esimio professionista, comunque, bruciava le tappe sulla retta via, lungo la quale correva a perdifiato per fare a tempo ad aggiungere l’ultimo respiro ad un coro che pregustava oceanico, dando alla propria delatoria diffida il titolo Légitime défense. D’altronde chi abbia considerato con la debita cura la rapsodica diegesi dell’opera in questione, Nadja, sa che in essa affiora, cristallino nell’ordine della trasparenza, il profilo della musa surrealista κατ’εξοχήν, proprio per non dire “per eccellenza”, colei che, a tutta prova, è necessario proteggere dal discorso subordinato ad una logica tanto anodina da assurgere, nel prossimo avvenire dell’inversione deontologica, quale sarebbe stata praticata, ad esempio, dalla psichiatria nazista – non più guarire, bensì sopprimere le «lebenunwertes Leben», «vite inadatte alla vita» –, fino al nefasto genocidio taylorista. Pertanto, sarà una sorpresa per pochi, sebbene non minore meraviglia per ciascuno, che il Secondo manifesto del surrealismo, proprio nel centenario di una precedente disputa, nota come «battaglia di Hernani», avendo opposto classici e romantici a proposito dell’omonimo dramma di Hugo, rivendicasse l’esistenza di un «certo punto dello spirito da dove la vita e la morte, il reale e l’immaginario, il passato e il futuro, il comunicabile e l’incomunicabile, l’alto e il basso cessano di essere percepiti contraddittoriamente» ed al quale aderiva nell’unico modo in cui sarebbe stato ancora possibile scongiurare la catastrofe: «permettere all’immaginazione dell’uomo di prendere su tutte le cose una rivincita eclatante, ed eccoci di nuovo, dopo secoli di domesticazione dello spirito e di folle rassegnazione, a tentare di liberare definitivamente quest’immaginazione attraverso il lungo, immenso, ragionato sregolamento di tutti i sensi ed il resto», la rivoluzione internazionalista, tra l’altro. Perché, come Breton precisava poco oltre, «noi pensiamo di aver fatto sorgere una curiosa possibilità del pensiero, che sarebbe quella della sua messa in comune», per ribadire che in quanto alla «nostra adesione al principio del materialismo storico… non c’è modo di giocare su queste parole. Che essa non dipende che da noi», sebbene in rue Colonel-Fabien i quadri del PCF, persuasi che se si è marxisti non si abbia bisogno di esser nient’altro, lo convocassero per metterlo alla prova e richiedergli un rapporto sulla situazione italiana, sottolineando non avesse ad appoggiarsi altro che su fatti statistici (produzione dell’acciaio etc.) e soprattutto non all’ideologia, proprio mentre il loro piccolo padre sovietico si occupava d’imporre ai gemelli transalpini la reintegrazione nel comitato centrale di quel Nicola Bombacci che sarebbe stato leale scudiero, ma del duce, e fino alla catabasi di Dongo. I partiti comunisti fecero come volle Stalin, cosicché il popolo dalle Alpi alla Sicilia non sia l’unico a patire il fascismo ancora oggi, sotto le nuove spoglie. Se il manifesto del 1929 domandò dunque «l’occultamento profondo ed autentico del surrealismo», ciò avvenne poiché «è all’innocenza, alla collera di alcuni uomini a venire che spetterà di far scaturire dal surrealismo ciò che non può mancare d’essere ancora vivo, di restituirlo, al prezzo d’un assai bel saccheggio, al proprio scopo»; pertanto «l’uomo che s’intimidirebbe a torto dinanzi a qualche mostruoso fallimento storico, è ancora libero di credere alla propria libertà. Egli è maestro a sé stesso, a dispetto delle vecchie nubi che passano e delle forze cieche che seguono di conserva. […] La chiave dell’amore, che il poeta diceva d’aver trovata, anche lui la cerchi bene: ce l’ha. Non sta che a lui elevarsi al di sopra del sentimento passeggero di vivere pericolosamente e di morire. Che egli usi, a dispetto di tutte le proibizioni, l’arma vendicatrice dell’idea contro la bestialità di tutti gli esseri e di tutte le cose e che un giorno, vinto – ma solo se il mondo è mondo – riceva la scarica dei loro tristi fucili come un fuoco a salve».

La miseria del linguaggio

appunti per una critica del linguaggio della miseria


un articolo di Giancarlo Micheli pubblicato su 



Se da nuove prue d’Italia un’effimera diarchia è venuta, or non è guari, proclamando nientemeno che l’«abolizione della povertà», Karl Marx, nella sua critica al socialismo piccolo-borghese di Jean Pierre Proudhon, sostenne che «in una società fondata sulla miseria, i prodotti più miserabili hanno la fatale prerogativa di servire all'uso della maggioranza». Chissà se la semiologia, dopo parecchi decenni dalla propria costituzione nel novero delle discipline scientifiche, sia oggi in grado di misurare, in termini di valore linguistico, di congruenza dell’enunciato al concetto che vi si designa, la distanza che sussiste tra una frase estrapolata da un vetusto testo marxiano del 1847 e le menzogne propagandistiche di un governo votato a smaltire, in virtù di incessanti ossequi ai mandati dell’industria mediatica, la pesante eredità corporativa di una biografia nazionale lungamente introiettata? Qualora un’anima ingenua pensasse di reperire suggestioni o pezze d’appoggio nelle baruffe virtuali che si scatenano quotidianamente sulle reti sociali a seguito di simili estemporanee recrudescenze del genio italico, promosso da residui investimenti informatici alla gloria ecumenica, ella non mancherebbe in effetti d’imbattersi in testi istruttivi: disquisizioni di autori dall’apparente prestigio pubblico, detentori tra gli italici di Streghe e di Campielli, la vacuità dei cui contenuti è compensata da una pletora d’errori etici e grammaticali che non basterebbero a vendicare i contratti a tempo indeterminato di centurie e legioni d’immortali correttori di bozze; esternazioni fuor dai denti di rampanti rampolli del patrio apparato editoriale-industriale o di suoi infimi fiancheggiatori; geremiadi di sedicenti arbitri d’una eleganza perduta eppur da loro stessi assiduamente vilipesa; il tutto agglutinato in tale pleonasmo di sintomi patologici del linguaggio mercificato che sarebbe palese atto di connivenza alla sua morbosa forza di persuasione voler demistificare in virtù d’analisi e induzioni. Mi viene, allora, in mente, quasi fortuita, affine ad una misteriosa benedizione che ci si potrebbe dar da soli, l’idea che le cosiddette fake news garantiscano profitti, ai proprietari delle architetture comunicative in cui s’annidano, grazie al tempo che i comuni utenti (quelli che nell’Atene periclea sarebbero stati detti “idioti”) impiegano a discernerle da eventuali veridiche, giacché, per l’intera durata di quell’intime disamine dalle parvenze indipendenti, essi se ne rimarranno buoni e quieti a dare implicito avallo a chi ritiene mezzo pieno il bicchiere da cui brinda in compagnia di ospiti sceltissimi, festeggiando senza posa una crescente occupazione del tempo-macchina, e stima conveniente addestrare persino i morti di sete e di fame ad assolverne i diuturni incrementi in illusoria concordia, osannante ciascuno un mutuo benessere solipsista. Per ricercare onestamente una risposta, sarà dunque opportuno lasciarsi guidare dalla necessità. Quale miglior occasione di quella offerta dall’aprire un libro a caso? Medito, pertanto, e provo a liberare la mente dai pensieri superflui, come verosimilmente farebbe chi avesse profonda esperienza del daoismo e avesse studiato i trattati di Liezi e di Mengzi. A colpo sicuro vado a raccogliere dallo scaffale le Lettere luterane, pubblicate in un frangente in cui la dittatura del codice capitalista esibiva le proprie foglie di fico democratiche al cospetto di antinomici simulacri, assortiti, non senza reazionaria oscenità, dal Cile di Pinochet alla Grecia dei Colonnelli, dalla Spagna franchista al Brasile dei gorillas. Com’è noto, l’opera si compone di un’introduzione dal titolo I giovani infelici ed una postilla in versi, estratte entrambe, a cura dell’arbitrio filologico dei redattori dell’allora eccellente casa editrice Einaudi, tra gli inediti cui Pier Paolo Pasolini andò lavorando nell’imminenza di venir congedato dalla vita, l’una posposta alla raccolta degli articoli eponimi apparsi dal luglio all’ottobre del 1975 sulle pagine del “Corriere della Sera” e del “Mondo”, l’altra premessa alla serie pubblicata sul settimanale nei mesi immediatamente precedenti ed intitolata ad un ideale ma specifico enunciatario, uno studente liceale napoletano di nome Gennariello, cui poteva allora capitar la sorte di tenere in mano quei fogli e, trovandovisi descritto, provare gratitudine per gli encomi rivolti ai suoi occhi «ridarelli», non sentirsi affatto offeso quando leggesse che sarebbe stato lo stesso «se anziché essere un Gennariello» fosse «una Concettina», essere addirittura lusingato, una volta che arrivasse al passo dove gli si diceva che, quand’anche non fosse «un miracolo», egli era almeno «un’eccezione», dal momento che tanti suoi coetanei erano «schifosi fascisti». È rimarchevole che qua, come più esplicitamente nel testo selezionato in apertura del volume postumo, Pasolini attualizzasse il lemma “fascismo” riferendolo innanzitutto al regime di cui vedeva profilarsi le propaggini, le quali finiscono appena oggi di rivelare, nei tratti essenziali di una fisiognomica priva di soggetto umano, l’abominevole profilo artificiale del totalitarismo mediatico. A guisa d’inattuale Socrate, l’autore di Petrolio aveva agio di diffondersi, a beneficio del fittizio discepolo, in dettagliati discernimenti di quella scienza allora pressoché novissima, specificando che i «“segni” del sistema verbale sono dunque simbolici e convenzionali, mentre i “segni” del sistema cinematografico sono appunto le cose stesse, nella loro materialità e nella loro realtà. Esse divengono, è vero, “segni”, ma sono i “segni”, per così dire viventi, di se stesse. Tutto ciò fa parte di una scienza, la semiologia, che tu, Gennariello, non puoi non conoscere almeno di nome, e nella sua significazione almeno divulgativa, se vuoi seguire i miei discorsi: specie questo sul linguaggio primo delle cose e sulla loro conseguente prevaricazione pedagogica».  Intanto, egli accomunava in una medesima colpa i padri e i figli della sua generazione: aver agito in complicità affinché il linguaggio dei popoli confluisse in quello della classe proprietaria. Colpa tragica e, forse davvero, «la più grave commessa in tutta la storia umana». Quanto preziosa questa rilettura per coloro che insistano a prospettare un risorgimento delle energie le quali, strutturate come un discorso liberatore, la Storia persevera a reprimere e a rimuovere! Nelle tesi, cui l’enunciatore era destinato a mancare da lì a poco, risiede un valore linguistico, durevole nella misura in cui non è tacciabile di perennità, fruttuosamente antonimo rispetto al conformismo che i tecnocrati della scienza borghese delle comunicazioni, fattisi intanto padri a loro volta, hanno disseminato nelle coscienze durante l’ultimo mezzo secolo. Così, dalle parodie insurrezionali di un coro tragico che, bruciate in un unico empito edonista millenarie prerogative democratiche, preferì integrarsi alla protocollare violenza del potere, così hanno infine ricevuto licenza e voce in capitolo gli apprendisti stregoni dell’odierna apocalisse cognitiva, organizzata in dominio assoluto delle apparenze, religione ecumenica di un’universale precarietà, nonché macchina di sterminio della ragione. Nell’inclita e colpevole compagine di codesti catecumeni, si potrebbero citare miriadi di nomi, senza comminar con ciò sufficiente castigo, né arrecar danno maggiore a quello consistente in una succedanea e gratuita promozione pubblicitaria. Sulle spalle viepiù gracili dei Gennarielli d’oggi grava dunque, oltre alla già lamentata impotenza riguardo al linguaggio delle cose, un ben altrimenti sofisticato degrado della produzione segnica. Boicottaggio e sabotaggio dei simboli e delle strutture del «fascismo vecchio e nuovo, cioè dell’effettivo potere capitalistico»: questa è la via aurea da indicare, benché per quanto attiene alle minuzie dell’itinerario si dovrà disporre di supplementare tempo e spazio, procurarselo con ogni mezzo e finanche crearlo dal nulla.