articolo
di Giancarlo Micheli
pubblicato
su Rivista di Studi Italiani (Anno XLII, n.2, agosto 2024)
Potremmo iniziare dalla fine e dipanare
gli eventi a ritroso, come su un’ideale pellicola, a partire da un generico
lunedì mattina in cui una qualsiasi delle cento città d’Italia torna al lavoro,
la lente dell’obiettivo appena appannata da una lattiginosa foschia, cosicché
risulti quasi naturale la transizione dai colori fiochi del paesaggio,
soffocati in un miscuglio rasoterra di vapore acqueo e ossidi di carbonio, alle
immagini in bianco e nero delle emissioni televisive.
Perché no? In fondo, non è per nulla
irragionevole supporre che il deputato della Repubblica Paolo Volponi abbia
aperto gli occhi sull’ultimo giorno della vita proprio mettendoli a fuoco, al
di là della finestra dell’ospedale delle Torrette, oltre l’umida cortina che un
debole grecale sprimacciava, verso alcuni squarci d’azzurro, recisi lassù, come
brandelli d’una garzatura, al di sopra del porto, dove un papa umanista aveva
atteso invano la flotta che lo conducesse all’apoteosi di un’ultima tardiva
Crociata e un imperatore, nato nella provincia della Hispania Terraconensis,
aveva attraversato l’Arco intitolatogli dal Senato e dal Popolo romano.
Se avessimo fatto a tempo a recargli un’estrema
visita e i legittimi custodi della sua pace ce la concedessero, siamo certi che
ci correggerebbe e preciserebbe che il suo incarico parlamentare sia decaduto
ormai quattro mesi fa, con lo scioglimento anticipato della XI legislatura e
con l’avvento della successiva, che ha riportato gli eredi del fascismo al
governo del Paese ed è venuta approntando gli strumenti e i metodi della
dittatura mediatica contemporanea, grazie all’ufficio storico d’un prorogato
uomo del destino, un cavaliere nazional-popolare, tutto unto di monopolio dal toupet
alle scarpe dal tacco rinforzato, tali da reggere il confronto e tenere il
passo, in garanzia, fino a quelle d’un omologo francese.
Subito dopo, non senza qualche inflessione
stilistica tale da evocare il discorso libero indiretto nel quale un Anteo
Crocioni, il protagonista delle Macchina mondiale, aveva cercato rifugio
alla periferia d’una civiltà ostile e imperscrutabile, così come l’autore di
lui lo aveva trovato, tra Cervantes e Kafka, in mezzo alle nobili macerie della
letteratura, subito dopo, il degente avrebbe tenuto a ribadire d’esser lieto
almeno di poter ricevere le cure palliative contro la fatale malattia dei reni a
carico della sanità pubblica, in favore della quale si era battuto entro i
limiti del possibile, dapprima semplice nativo d’un antico insigne ducato,
quindi studente di legge e poeta, ed infine, per quasi un decennio, senatore
del PCI.
Converrebbe d’aver fatto quel che ha
potuto, mentre assesta il proprio peso contro lo schienale e non dissimula un
pur minimo sorriso, ove trapela una fugace ironia, benché il suo oggetto presenti
implicazioni assai serie e inerisca alla cosiddetta IoT, Internet of Things.
Non ci sorprenderemmo qualora gli siano tornati in mente altri brani in cui
aveva amplificato e sintonizzato quell’idea destinata a farsi industria, finché
non gli era riuscito di conferire un punto di vista diegetico adeguato a
poltrone aziendali, scope, piante decorative e quant’altro. Forse ha
immaginato, giusto adesso, quali reazioni, in termini linguisticamente
elaborati, possano mai suscitare su quel telaio di tubi metallici gli
assestamenti e i sussulti del corpo che vi adagia, fiacco a causa del morbo,
eppure ancora inquieto.
Non escluderemmo che voglia già congedarci,
affinché riprenda lui stesso, una volta ancora, il filo di quel discorso,
progetto, organismo, delle sue membra, guaine, articolazioni, zooidi, nel qual caso
lo asseconderemmo con premura, seppur senza devozione. Lo saluteremmo, comunque
ammirati per la caparbietà di voler avanzare nell’indistinto, nella nebbia, fin
dove il mistero dell’origine circonda tutti da tutti i lati, fino all’ultimo
istante.
Potrebbe darsi che, invece, desideri
trattenerci ancora un po’, tanto più laddove i medici valutino che la nostra
compagnia non turbi lo stato dei parametri vitali, di modo che, schiaritasi la
voce con flebili colpi di tosse, ci sussurri come proprio quelli fossero i
brevetti di cui i monopoli dell’elettronica parevano voler concedere lo
sviluppo all’azienda eporediese, al tempo in cui l’Ingegnere dovette
traghettarla nelle acque procellose della globalizzazione, sembra ieri. Per un
attimo il volto gli si contrae ad esprimere stupore: non gli sembra vero che
siano passati vent’anni dacché lasciò il ruolo di direttore del personale e ben
trenta dalla morte, in circostanze tuttora per larghi versi oscure, dell’erede
del fondatore, colui che era riuscito a far produrre alle sue maestranze il
primo personal computer. Una patina di amarezza gli trascorrerebbe sui
lineamenti, quando constatasse, verosimilmente, che il suo sfortunato datore di
lavoro dovette patire una certa subalternità persino postuma, giacché un
celebre collega, poco dopo di lui, fu immolato secondo modalità ben più acconce
a simbolizzare la vittimizzazione nazionalistica al cospetto del dato oggettivo
della violenza del Capitale.
A questo punto, non si asterrebbe da una
conclusiva esecrazione degli interessi che manovrano dietro lo sfruttamento del
crollo sovietico e dietro la Guerra del Golfo, gli stessi che ha cercato di
mettere a nudo nel suo lavoro di scrittore e anche, come rappresentante dei
cittadini, all’interno dello Stato che se ne è fatto, via via, complice:
Ci
vuole un uomo diverso, più animale, più coraggioso, più attivo per immaginare
una possibilità di uscire dalla fine del mondo. Io di certo non sono uno
scrittore facile, contento, felice, che serva per scrivere dei libri che
piacciono alla gente, che la accontenti, la segua in villeggiatura e la faccia
dormire alla sera. Io ritengo che il libro debba avere dei contenuti di
dibattito, di scontro, perché nella lettura chi legge deve aumentare il proprio
spazio psicologico e anche il proprio spazio storico. Cosa vuol dire spazio
psicologico? Mettere dentro la lettura sé stesso, con tutti i propri problemi,
e cercare di venir fuori dalla lettura arricchito, anche nel confronto con sé
stesso e con i propri problemi. Certo, leggere in questo modo non è leggere per
accontentarsi, per capire come va a finire una storia o solo per divertirsi o
per svagarsi, è piuttosto leggere per fortificarsi. In questo modo, perché
aumenta lo spazio storico? Perché un cittadino più colto, più cosciente di sé
stesso, dei propri doveri, dei propri dolori, dei propri diritti, della propria
capacità di stare al mondo come cittadino, è politicamente più forte e quindi
aumenta la sua possibilità di intervento sul piano politico e storico.
A
beneficio di chi non l’avesse ancora realizzato, vorrebbe tornare un istante
sull’argomento toccato in precedenza e ci terrebbe a puntualizzare che si
trattava proprio di quella tecnologia efficace a dotare ogni elemento d’una
rete di dispositivi della funzione di scambiare dati tra di loro e con un
elaboratore centrale, così da ampliare la complessiva capacità d’interazione in
un ambiente al quale l’uomo si adatti in termini sempre più ergonomici ed
automatici, finché, in un futuro che lui non sa definire, tanto meno adesso,
quando gli restano solo poche ore, un altro brevetto, come un ineffabile
spirito della liquidità, precipitasse e fosse raccolto in tutte le percezioni e
le risollevasse dalle loro stesse polveri, in un turbine, un grande e nuovo
empito di democrazia, crescita, competizione, mutuo inganno, distruzione, fallimento
e differimento finale al prossimo bilancio consuntivo.
Noi
taceremmo, per schietta compassione, sui pericoli dell’AI come li interpreta,
oggi, un Elon Musk o quali potremmo interpretare noi stessi, cosicché un
silenzio più acconcio al fiato d’un paziente terminale accoglierebbe il regesto
dei suoi interventi parlamentari, ad iniziare dal più recente.
Esordirebbe,
pertanto, dal rimarcare che la sua ultima interrogazione, in veste di deputato
del Partito della Rifondazione Comunista, fu quella del 21 ottobre 1992, nella
quale tornava a chiedere il ripristino della linea ferroviaria Fano-Urbino,
dopo averlo caldeggiato già in due precedenti interventi, sia durante la IX che
durante la X legislatura, allora nell’aula di Palazzo Madama.
Colui
che, una volta consumata la “svolta della Bolognina”, non ebbe remore a
completare la parabola che dalle posizioni giovanili, vicine all’area
azionista, l’aveva respinto sempre più alla sinistra dell’arco parlamentare,
pazientemente, ci spiegherebbe:
Prima
della guerra venivamo a Roma in treno comodamente. Infatti, vi era un treno che
in un’ora collegava Urbino con Fabriano dove vi era la coincidenza per Roma.
Ebbene, questo treno è stato distrutto dalle truppe di occupazione naziste che
avevano capito l’importanza di tale ferrovia; essa costituiva un collegamento
trasversale, metteva in collegamento le zone interne tra il Nord e il Sud del
paese, entrava in qualche modo all’interno dell’Appennino ed era di grande
comodità in quanto serviva un vasto territorio. La sistematica distruzione
ponte per ponte è avvenuta proprio perché le truppe tedesche – lo ribadisco –
avevano capito che si trattava di una ferrovia assai importante.
La
nostra Repubblica si è sempre vantata di aver ricostruito tutto, di aver
riparato ad ogni danno di guerra, di aver riedificato ogni casa abbattuta, ogni
istituto, ogni struttura, ogni pubblico monumento. Ciò invece non è avvenuto
per Urbino, che non ha riavuto questa ferrovia indispensabile alla sua
economia, alla sua università, alle sue piccole industrie che allora
esistevano, ai suoi artigiani, alla sua popolazione, al suo vasto territorio
montano che sprofonda verso la Romagna e che nella ferrovia aveva delle
possibilità di aggancio al resto del paese.
Si
dilungherebbe, inoltre, a specificare che il progetto di una ferrovia
subappenninica, che congiungesse Sant’Arcangelo di Romagna, sulla linea
Bologna-Ancona, a Fabriano, su quella Ancona-Roma, era stato inserito nel testo
della legge Baccarini del 1879, giacché sarebbe stata meno esposta ai
bombardamenti navali di quanto non avesse dimostrato di esserlo, già dal
conflitto con l’impero asburgico del 1866, il percorso litoraneo. La tratta da
Urbino a Sant’Arcangelo non venne mai completata, ma almeno dalla vecchia
capitale ducale fino a Fabriano, per cinquant’anni, si era potuto viaggiare
attraverso Fermignano e Pergola.
Viste
le sue intenzioni, non sarebbe inopportuno, al fine di non affaticarlo invano, intrometterci
e coglierne spunto per encomiare la richiesta contenuta nell’interrogazione che,
tre mesi prima, presentò al ministro competente, un grand commis dell’ordine
dei giornalisti, che un camerlengo maggiore del socialismo patrio aveva
espressamente cooptato nel proprio gabinetto:
Onorevoli
colleghi! Nel 1946 sono stati ritrovati a Cartoceto di Pergola (Pesaro) i resti
di sculture bronzee, risalenti al I secolo d.C. Il Consiglio superiore delle
antichità e belle arti nel 1958 espresse il parere di assegnare i bronzi al
Museo archeologico nazionale delle Marche di Ancona. Le sculture, trovate in
pezzi, sono state mirabilmente restaurate dal Centro di restauro della
Soprintendenza archeologica per la Toscana di Firenze e sembrano rappresentare
Livia, moglie di Augusto e madre di Tiberio, Agrippina Maggiore, moglie di
Germanico, e i due figli Druso Cesare e Nerone Cesare. Si discute se le statue
siano state fatte a pezzi e sepolte per una damnatio memoriae oppure
perché trafugate e nascoste da briganti durante un loro spostamento.
Rimpiangendo
di non aver goduto alcun titolo per sostenerla, elogeremmo, dunque, la proposta
di assegnare le statue al Centro operativo e museale di Pergola, in virtù della
sua coerenza al principio elettivamente volponiano di diffondere la cultura in
modo capillare, ovunque nei diversi territori, di cui rigenerare continuamente
l’identità in fertile relazione con le realtà produttive, quelle sociali e
istituzionali, le risorse naturali e storiche, secondo quel che era venuto
esponendo in un’iniziativa di legge per il recupero e la valorizzazione del
patrimonio storico, artistico e ambientale della città di Urbino e dei comuni
dell’area del Ducato di Montefeltro e Della Rovere, presentata il 6 luglio
1992.
Lo
prende un vistoso moto d’insofferenza, da dentro, tant’è che tenta di sollevare
le spalle puntellando i gomiti sul materasso e, quando vede l’ampolla sopra di
sé, gli pare che il liquido che vi è contenuto non vada su né giù, quasi una
Sibilla, tutta stracciata e consunta, fosse stata risucchiata in fondo all’erogatore
e avesse finito per ostruirlo. Chiamiamo noi l’infermiera, affinché sistemi la
cannula della fleboclisi, ma lui non dà l’impressione di ricevere un immediato
beneficio dalla pur abile operazione. Non ci viene certo in mente di
rivelargli, proprio adesso, che un esponente particolarmente abietto, tra gli
eredi di prima, rivestirà, in un futuro non lontano, nientemeno che la carica
di prosindaco della città che ha tanto amato. Per fortuna, sembra si sia già
ripreso e sorprendiamo il suo sguardo, allorché riapre le palpebre affrante, insistere
sui fianchi sodi dell’infermiera, la quale si è appena voltata per uscire,
cosicché ci concede la ragionevole speranza che gli abbia suscitato il ricordo
della procace Massimina, cui sarebbe andato dietro, nei panni di Anteo, fino
alla capitale e fino in capo al mondo, al tempo in cui da Pergola si poteva
ancora prendere il treno per arrivarci.
L’incidente
è servito quantomeno a rianimarlo momentaneamente dalla spossatezza sintomatica
d’una severa insufficienza renale, se è vero che, riscossosi come da uno dei
caratteristici turbamenti etici patiti dal padre Dante lungo la discesa per i
gironi dell’Inferno, ora è lui che guida noi nel risalire la corrente degli
anni, a guisa di risanato Virgilio.
Vuol
parlarci del suo intervento al Senato nel dibattito sulla legge finanziaria per
l’esercizio 1992, per l’anno, dunque, che avrebbe funestato i patri arenghi della
politica, una volta che l’inchiesta “Mani pulite” trovasse l’acconcio tribuno
di modo che, previ un paio di governi blasonati da presunte integrità della
tecnica giuridica e finanziaria, l’idea d’un civile progresso industriale
ricadesse tra i pollici opponibili del massimo autocrate dell’apparato
editoriale-industriale, del cantore nazional-popolare per eccellenza, dell’Omero
degli italici televisori.
Il
declino inesorabile era già denunciato nelle dichiarazioni che fece, allora, al
«commendatore di bronzo che aveva comandato i batiscafi con i lingotti d’oro
della banca centrale e che avrebbe nel futuro guidato l’ultimo sommergibile dei
liberals contro i vandali animaleschi del Pianeta irritabile», il quale, fattosi intanto
ministro del Tesoro dello statista la cui gobba albergò una così squisita
riserva lipidica da soddisfare tutti gli appetiti democratici nazionali durante
le perigliosa traversata dei deserti della Guerra fredda, lo ascoltò non senza cinico
disprezzo:
Una
volta, qualche anno fa, quando avevamo di fronte provvedimenti di questo genere
ne vedevamo la stentatezza, l’insufficienza, la frammentazione, ma vedevamo
insieme il disegno che li sovrastava, portato avanti non dal Governo ma da
quelli che stanno sopra, il grande potere capitalistico, e vedevamo chiaro il
disegno sulla salute del grande capitale sopra la stentata conduzione delle
piccole leggi prodotte dai Governi della Repubblica. In questo momento, invece,
vediamo che anche il grande capitale e i disegni che sovrastavano il Governo
non esistono, o sono confusi, altrettanto poveri e altrettanto privi di
dottrina, di speranza, di obiettivi e di qualità.
Fatta
questa dichiarazione politica mi distinguo fortemente sul piano culturale da un
Governo come questo. C’è nel mondo chi teorizza in realtà che con la caduta
dell’Est c’è stata anche una contemporanea – se non proprio esattamente nello
stesso istante – caduta del mondo dell’Ovest.
Questo forse è vero ed è teorizzato da grandi studiosi americani. È finito un
tipo di economia anche per il capitale; l’economia della bomba è finita. L’industria
americana oggi è in una grave situazione di crisi perché deve riconvertirsi,
perché ha perso le commesse e i profitti che aveva continuando a costruire gli
armamenti e il sistema della bomba. Oggi invece deve fare i conti anche con la
crisi che si trova di fronte, perché non è stata capace di arrivare a creare un
nuovo sistema, ad immaginarsi un’economia diversa, a rinunciare ai facili
profitti delle commesse per rilanciare invece l’industria sul piano della
ricerca e della novità. Noi in Italia subiamo pesanti contraccolpi; anche la
nostra industria è in crisi e ci troveremo di fronte ad una crisi più grande
perché dagli Stati Uniti la crisi dilagherà e arriverà in Europa e in Italia.
Come faremo fronte a questa crisi con una legge di tale genere? Manca qualsiasi
programma economico nell’attività del nostro Governo, non c’è un principio, non
c’è una validità di progetto.
Tre
giorni prima, al cospetto di quel democristiano tanto pio da tollerare con
esemplare compitezza le satiriche punzecchiature con cui i principi del
giornalismo lo avevano a lungo assimilato a quello dei demoni dell’inferno, oggi
semplice presidente del Consiglio al culmine d’una carriera affine, quanto a
durevolezza, all’eternità delle pene laggiù dispensate, il senatore Volponi aveva
spronato l’assemblea ad indignarsi a fronte delle recentissime indiscrezioni
che il presidente della Repubblica in persona aveva rilasciato alla stampa,
fuor di metafora. Come tutti potremmo ricordare, il tema dell’intervista in argomento
riguardava ventilate corresponsabilità di alcuni settori del partito, cui
appartenevano sia Belzebù sia ‘il picconatore’, nientemeno che nell’assassinio
di quel suo stesso martire, il quale aveva sdoganato e condotto i primi governi
di centrosinistra, nell’epoca lontana del boom economico, ed era poi stato
sacrificato, al compimento del tragico rituale degli Anni di piombo. Da quelle
voci di corridoio, innalzate fino all’ugola somma delle istituzioni, arrochite o
rese addirittura stridule dalle parvenze di tradizionali e gerontocratiche
dialettiche correntizie, l’urbinate aveva udito «sorgere l’altro partito
politico che, muovendosi secondo il senso delle esternazioni, non arriva solo
alla fine di questa Repubblica, ma anche alla fine di ogni Repubblica
democratica del nostro paese».
È
convinto di aver giusto toccato una questione strategica, pertinente alle basi
elementari d’ogni possibile convivenza democratica, quand’ecco che gli tocca di
prenderla di petto un’altra volta, per giunta in una situazione di
coinvolgimento personale non certo propizia, tale che gli costi uno sforzo
assai insalubre rammentare il proprio intervento durante dibattito del 17
ottobre 1991, in cui era in esame il riordinamento del Servizio sanitario
nazionale che sarebbe stato tradotto in decreto di legge nell’anno seguente. In
quella seduta, sostenne che tale legge avrebbe procurato danni difficilmente
riparabile, in forza della pretesa, da cui era informata, di sostituire con un manager
il consiglio democratico nominato dai Comuni: «un manager, parola mitica
e di moda, ma brutta, che non vuol dire nulla specialmente in italiano perché
la traduzione sarebbe “maneggione”, “colui che maneggia” e non altro». Ancora adesso, quando la
fibra dolente gli darebbe numerosi stimoli divergenti e di tutt’altra
eziologia, gli pare di non doversi lamentar d’altro che dell’amara previsione
che codesti «managers, che mancano persino alle nostre grandi industrie
che non sanno dove reperirli e li vanno a cercare nel mercato di tutto il
mondo, saranno prefetti riciclati, segretari comunali in pensione, amici dell’amico
dell’amico e le lottizzazioni diventeranno più feroci di quelle in atto al
tempo delle USL che in realtà hanno dato delle buone prove».
La
rimembranza deve averlo particolarmente depresso. Affonda il capo nel cuscino e
dà segno di preferire fermarsi lì e non desiderare ormai altro se non il
riposo. Per un po’ rimaniamo nel dubbio se non sarebbe ritemprante menzionargli
almeno una delle cause per cui bagnò di sudore i panni del laticlavio che non
sia stata del tutto disattesa. Mentre vagliamo come potremmo riuscire a
sussurrargli all’orecchio, tra la veglia e il sonno, che quantomeno l’intervento
di restauro sugli affreschi aretini di Piero della Francesca, da lui sollecitato,
in qualità di membro della VII commissione permanente per Istruzione pubblica,
beni culturali, ricerca scientifica, spettacolo e sport, sia stato infine
eseguito, sebbene a distanza di tre buoni decenni dalla tempestiva
interpellanza, lo vediamo però rianimarsi col ricorso alle sole forze
interiori.
Di
soprassalto, afferma che bisogna fermare la guerra, che non rimane più tempo,
«per colpa della morte/ che viene avanti, al tramonto della gioventù./ Ma per
colpa anche di questo nostro mondo umano,/ che ai poveri toglie il pane, ai
poeti la pace»,
come dicono i versi di Pier Paolo. Bisogna fermare questa guerra in Iraq, che
anche l’Italia, mimetizzata entro un folto sciame di mosche cocchiere, sostiene
e alimenta a maggior provento dell’apparato militare-industriale. In ordine
alla discussione del decreto del 19 gennaio 1991, recante ulteriori
provvedimenti urgenti in merito alla situazione determinatasi nell’area del
Golfo Persico, aveva argomentato:
Noi facciamo questa guerra per difendere l’interesse
capitalistico al quale è legato il nostro livello di vita. Ma questo vuol dire
che noi approfondiremo sempre di più il solco tra noi e i paesi
sottosviluppati; che tutte le altre operazioni che si mettono in atto sono di
mistificazione, che non c’è né politica estera, né cultura, ma solo una serie
di inganni per difendere un privilegio che ormai è ridotto a quello di una
cittadella arenata. L’Europa e l’America costituiscono una fortezza armata nei
confronti del mondo, lo dominano e ne vogliono le risorse. I problemi dei
piccoli paesi intorno non contano; il diritto internazionale è condizionato da
questa realtà, è una conseguenza di questa realtà. […] Per questo noi diciamo
basta alla guerra e lo facciamo con chiare e oneste intenzioni di arrivare alla
pace e di lavorare per essa, perché crediamo che il lavoro sia pace, che la
giustizia sia pace e il rapporto fra la gente, mettendo le grandi e le piccole
nazioni a confronto e trovando un piano nuovo e armonico sostenuto dalle
popolazioni e dalle culture dell’Oriente, sia pace; altrimenti saremmo brutali
ed indegni di essere arrivati alla fine di un secolo sanguinario come questo,
lontani dalle Crociate, ma vicinissimi allo stesso spirito.
Intanto,
si è fatto pomeriggio inoltrato. Su sua richiesta, andiamo ad aprire la
finestra. Fa molto caldo e il refrigerio offerto da qualche sporadico refolo di
vento è relativo. Fuori il cielo pende in larghe campiture, come se sgocciolasse,
da vernici acriliche dell’espressionismo astratto, direttamente all’interno
della cornice d’alluminio. I ricordi del paziente si fanno rarefatti, man mano
che risalgono verso le prime fasi della legislatura: ci scruta con un certo
scetticismo mentre enumeriamo brevemente le sue meritevoli iniziative a
proposito di cooperazione allo sviluppo, disciplina del sistema radiotelevisivo
pubblico e privato o degli stupefacenti e delle sostanze psicotrope. Ora, però,
deterge la fronte con la stoffa del pigiama ed il piglio ne risulta un minimo
rinfrancato, allorché rivendica l’appropriatezza delle critiche che rivolse al
ministro degli Esteri di quel corpulento socialista che l’Alighieri avrebbe punito,
senza indulgenza, nella quinta bolgia dell’ottavo cerchio ma cui gli italiani
non poterono far altro che elicitare l’esilio, all’esaurirsi d’uno sciagurato cursus
honorum da lì a sette anni, tramite un fitto lancio d’unità di conto in
piccola taglia. Codesto ministro altri non poteva essere che l’esimio perito di
malebolge del quale si accennò sopra e la materia della contestazione la
riforma degli istituti italiani di cultura all’estero, riguardo alle cui norme
regolatrici Volponi deprecò che «gli aggiustamenti che sono stati apportati
alle vecchie leggi del 1926 e del 1940, con l’intervento legislativo del 1950 e
la circolare ministeriale n. 42 del 1955, hanno scrostato l’apparato di
propaganda culturale del regime fascista, ma si sono nella sostanza limitati
alla creazione di strumenti di politica estera. Dopo il 1955 sono venuti meno
anche questi insufficienti interventi governativi. Lo stato di progressivo
abbandono degli istituti di cultura a partire dagli anni Cinquanta e la loro
gestione a volte clientelare hanno aggiunto ulteriore danno ad una situazione
precaria».
A
riprova del fatto che ciò che meglio lo unisce alla vita, anche e soprattutto
in questi momenti ineluttabili, sono i temi della conoscenza e della sua
trasmissione, egli raduna le energie residue per riconsiderare i concetti che
aveva focalizzato nel discorso del 5 febbraio 1985, intorno al nuovo
ordinamento della scuola secondaria superiore statale: dopo aver deprecato i
riferimenti del testo di legge che orientavano, troppo sbrigativamente, la
didattica sulla base delle esigenze del mondo del lavoro, dopo averne
stigmatizzato la «subalternità non tanto alle scienze – che sono fondamentali,
reali, vere ed utili – quanto alle loro applicazioni del momento, attraverso le
tecnologie, le tecniche, i modi attuali di sviluppare le scienze in termini di
produzione e di trasformazione della materia e della vita dell’uomo», sottolineava con
amarezza che «i ragazzi in terza media non sanno fare un tema compiutamente e
con qualche originalità di lingua e contenuto; sanno solamente usare il tempo
presente e quello imperfetto ed ignorano il passato remoto ed il futuro, per
non parlare del congiuntivo che è diventato un po’ l’emblema della nuova lingua
italiana, come il “vadi e il venghi” del cinema e della televisione, cioè dei
grandi mezzi di informazione, che anche se vogliono fare della parodia alla fin
fine strizzano un occhio ed insegnano che anche questi termini valgono e forse
più di altri, immettendo nel sistema della cultura e dell’educazione la
furbizia, che rappresenta un tema prevalente nel nostro paese. Insegnano che
non si deve studiare e diventare bravi ma si deve essere furbi». Infine, concludeva:
Non
vorrei che oggi avessimo un certo senso di inferiorità nei confronti della
cosiddetta cultura industriale e che ci accingessimo ad aggiornare rapidamente
la nostra scuola ai principi di questa. In fondo questo viene continuamente
predicato, quasi comandato, da tanti autorevoli uomini della nostra Repubblica,
sia politici che dell’economia, sia di Governo che della cultura, i quali
continuano a ripetere che non abbiamo una cultura industriale, che siamo in
arretrato, che non sappiamo ricercare.
Ma
cosa abbiamo dato, cosa diamo noi alla ricerca scientifica? E poi se la nostra
cultura è in arretrato di fronte ai temi dello sviluppo industriale, delle
tecniche dell’industria e delle sue necessità, se non c’è questa cultura
diffusa nel nostro paese, di chi è la colpa? Direi soprattutto della nostra
grande industria, del suo spirito capitalistico, egocentrista e quindi molto
elitario e autoritario, tanto più che la nostra è un’industria nata come
autarchica, che quindi non avvertiva neanche il bisogno di essere competitiva,
di confrontarsi con la concorrenza, di spuntare il confronto con altre
industrie su altri mercati. È nata come un’industria protetta, viziata: è un
figlio unico di famiglia nobile e ricca, che ha vissuto e ha continuato sempre
a vivere di rendita, che ancora oggi vuole vivere di rendita imponendoci tante
compatibilità che vanno bene a lui, principe figlio unico, e al suo palazzo,
alla sua corte.
È
tornata l’infermiera, stavolta soltanto per annunciare la conclusione dell’orario
per le visite. Senza aver potuto completare la ricognizione degli interventi
parlamentari volponiani, obbligati ad omettere sia un’appassionata requisitoria
sulla pressoché atavica questione meridionale, sia le fiere battaglie
ingaggiate contro il governo del suddetto pingue premier del PSI, sotto
la cui leadership la classe lavoratrice, della quale in teoria costui
era purtuttavia un rappresentante, dovette rimangiarsi tutte le conquiste
conseguite con le lotte dei decenni precedenti, attraverso lo stillicidio dei
decreti sull’indennità di contingenza e quant’altro, in silenzio prendiamo
congedo. Paolo dorme. Il suo volto adesso pare disteso. Ci resta la speranza
che il colloquio odierno gli abbia in qualche modo giovato e che adesso riposi
in pace.
Sulla
via del ritorno, le costellazioni estive già inondano il lunotto dell’automobile
con la loro lucente risacca. Se il fracasso del motore lo consentisse, siamo
certi che, abbassando i vetri del finestrino, udremmo persino il frinire delle
cicale, mentre la vettura percorre un lungo viale alberato. Appena imboccata l’autostrada,
il telefono squilla. Ci chiamano dall’ospedale. Una voce, con tono grave e
professionale, scevro d’ogni accento di cordialità, ci comunica che le
condizioni del paziente si sono aggravate e, se vogliano dargli un ultimo
saluto, dobbiamo affrettarci a raggiungerlo. Al casello di Senigallia,
prendiamo lo svincolo per reimmetterci in direzione opposta. Giunti di nuovo al
nosocomio, attraversiamo i corridoi deserti. Non incontriamo nessuno, né un
addetto alle pulizie, né un dirigente amministrativo che, espletate le ultime
incombenze, si avvii verso l’uscita. La porta del reparto la troviamo chiusa.
Premiamo il campanello. Nessuna risposta. Intorno tutto tace. Neppure un suono
che, simile ad un remoto richiamo di cetacei, penetri attraverso le pareti a
rivelare l’attività che, sia pur attenuata, non può mai cessare del tutto in
tali luoghi di degenza. Se questo non è un silenzio sepolcrale, non sapremmo
dire affatto quale altro possa esserlo mai: non un medico di turno che, al
nostro ennesimo tentativo sul tasto del campanello, venga a redarguirci, sbraitando
seccamente che, se dall’interno non ci aprono, vorrà ben dire che siano
affaccendati e non sia pertanto il caso di molestarli ulteriormente. Niente di
niente. Solitudine e desolazione sono tali da indurci a sospettare che l’intero
servizio sanitario nazionale sia stato abrogato e dismesso nel breve lasso di
tempo della nostra assenza. Onestamente, non riesce verosimile che un così
complesso adempimento burocratico possa essersi consumato tanto in fretta.
Va
bene, Paolo, vorrà dire che ci rivedremo, con ogni probabilità, in purgatorio,
dove non mancano davvero le motivazioni per darsi da fare e rimettersi al
lavoro. Intanto, noi ci appagheremo del fatto che, in mezzo a questo silenzio
spettrale ed inquietante, almeno non sia apparso a riceverci un usciere in
camicia nera.