mercoledì 10 settembre 2025

L'Arciere e altri racconti

uscirà il 30 ottobre, per le edizioni Effigie

L'Arciere e altri racconti

In questi tre testi, Micheli narra esperienze, reali e immaginarie, di un’umanità in bilico tra i carcami dell’economia capitalistica ed il culto di un’autocratica normatività che va colonizzando le coscienze, abbacinate dal pieno fulgore algoritmico della sua apocalisse, ubiqua e quotidiana. Sullo sfondo di sghignazzi isterici ed ordinaria apatia in cui è costituita l’organizzazione delle apparenze, la forma del racconto raccoglie, ai margini degli eventi, un sorriso interiore, rilancia il sogno ad occhi aperti della coscienza di specie, prefigura il laborioso cammino verso la pace universale ed il regno della libertà.


Il volume è preordinabile a:

Amazon

La Feltrinelli

Ibs

Libreriauniversitaria

Libraccio

 


In copertina: Antonio Sant'Elia, Centrale elettrica (1914, inchiostro colorato e matita su carta)




Della prosa di Micheli è stato scritto, dal 2007 al 2024 (estratti):


 Micheli è al secondo romanzo. Il primo era intitolato Elegia provinciale. Entrambi sono notevoli per le caratteristiche della scrittura, molto lavorata. La lezione di Gadda è evidente nell'ampio spettro della invenzione linguistica.

Romano Luperini

 

Anche se predilige il racconto d’epoca, sorretto da una minuziosa ricostruzione di situazioni storiche e usi linguistici, Micheli non perde mai di vista l’umanità e, di conseguenza, l’attualità dei suoi protagonisti.

Alessandro Zaccuri

 

Ciascuna porzione minimale trasporta i segni delle tante storie che confluiscono in un intreccio di verità e invenzione dagli effetti sapienziali.

Carmen De Stasio

 

Forse è proprio questa innocenza che rende così evidenti e credibili le sue invenzioni, come possono esserlo solo le fantasie d’un poeta.

Manlio Cancogni

 

Romanzo per la mano sinistra è un testo ammirevole per la determinazione, davvero massimalistica in tempi di desolante minimalismo, con la quale l’autore ha deciso di confrontarsi con temi che è riduttivo definire alti.

Franco Contorbia

 

Il romanziere non guarda alla storia (né alla Storia) come a una sequenza vettoriale […], la ricrea rileggendola - quasi inventando l'obtusus di una terza dimensione del narrabile - nella forma temporale della simultaneità simbolizzata.

Neil Novello

 

Usa un sistema narrativo che è pieno di sorprese, ma anche di ritorni e leit-motifs, secondo una tecnica che amo definire di avvolgenza, quasi vi si potessero rinvenire principî percettivi di ordine tattile

Rodolfo Tommasi

 

Penso che questo libro sarebbe piaciuto a Leon Trockij, perché è un libro della rivoluzione permanente, uno sguardo non corrotto dalla burocrazia e neppure venduto all’interesse del denaro, uno sguardo d’una innocenza inquietante, che ci consegna un’opera la quale, a mio avviso, è un evento.

Tomaso Kemeny

 

Tutta l’opera di Micheli si accende di queste visioni: convinzione, modo di costruire il paesaggio che ci sta di fronte, lungo un cammino che, pur passando attraverso la storia, le sofferenze, le degenerazioni della specie, prosegue fino al luogo che le sarà idoneo, fino alla umanità nuova.

Gabriella Valera Gruber

 

Micheli si è reso conto che il “romanzo è una malattia del linguaggio”, che la capacità di raccontare si è pietrificata, che la lingua deve tornare a produrre coinvolgimento e sogno.

Daniele Luti

 

Una sottile vena di ironia certamente non estranea al Manzoni, ma più vicina, come già in altri lavori, allo stile di Carlo Emilio Gadda.

Luciano Albanese

 

Uno stile, quello di Micheli, degno di essere riconosciuto e valorizzato, in particolare per le venature ironiche tese a uno straniamento che consenta al lettore di revocare in dubbio le versioni ufficiali della Storia

Francesco Macciò



 

 

Romain Rolland e l'etica pacifista

 articolo di Giancarlo Micheli pubblicato su

IlPonte – rivista di politica economia e cultura fondata da Piero Calamandrei

(Anno LXXXI, n.1 gennaio-febbraio 2025)

 

 

La guerra e il potere – economico, politico e culturale – sembrano implicati, nella Storia, in una collusione opprimente e inestricabile. Adesso, forse, più che in ogni epoca passata. Tant’è vero che, oggi, la sintassi di chi voglia sostenere, nel merito, tesi difformi dalle maggioritarie debba essere obbligatoriamente appesantita da tutta una sequela di premesse concessive. In una temperie sociolinguistica in cui la comunicazione di massa inclina alla lapidarietà dello slogan pubblicitario e dell’ultimatum terroristico, salterà all’occhio l’entità del supplizio comminato, o ne risulterà quantomeno evidente la sofisticatezza al confronto, ad esempio, con la schietta protervia con la quale il regime fascista soleva esigere dichiarazioni di lealtà.

Proprio negli anni in cui la dittatura, in Italia, ebbe solida parvenza ed illuse le moltitudini col sogno effimero d’una millenaria restaurazione augustea e col primato della razza, la Terza Repubblica francese concedeva onori d’un diverso genere ad una vecchia gloria della letteratura nazionale.

Nato, in un borgo del nivernese[1], sullo scorcio d’un altro caduco impero, quello di Napoléon III, Romain Rolland festeggiò il settantesimo compleanno nella circostanza, entusiastica e quasi esaltata, dell’ascesa al governo del Fronte popolare[2].

Benché egli vantasse, allora, una personalità artistica ed intellettuale congrua ad una biografia tra le meno scevre di segni di predestinazione, avendo ottenuto l’agrégation in Storia all’età di appena ventitré anni e una cattedra di Storia dell’arte all’École normale supérieure a soli ventinove, essendo stato l’organizzatore del primo Congresso di Storia della musica[3], tenutosi a Parigi all’alba del ventesimo secolo, nonché l’autore del romanzo in dieci tomi, Jean-Christophe[4], che gli era valsa la celebrità entro l’anno delle guerre balcaniche e, allo scoppio della Grande guerra, la fama di assertore d’un pacifismo tanto ben espresso e recepito da indurre l’Accademia delle scienze di Svezia ad assegnargli il Nobel per la letteratura[5], volendo metter poi in conto di succedaneo il merito d’aver fatto conoscere in Europa il pensiero di Ghandi[6] o quello, più recente, d’aver aderito alle posizioni della Terza Internazionale ed aver visitato l’Unione Sovietica, in compagnia della nuova moglie[7] e del fraterno amico Gorkij, nonostante un così cospicuo coinvolgimento personale negli accadimenti più decisivi ed emblematici, Romain era un uomo schivo.

Sebbene avesse discusso la tesi di laurea in Lettere, allorché le prime proiezioni dei Lumière portarono scompiglio nelle percezioni dei cittadini, proprio su un argomento d’interesse drammaturgico, Le origini del teatro lirico moderno (Storia dell’Opera in Europa, prima di Lulli e Scarlatti), benché avesse esordito, fin da quell’ultima decade dell’Ottocento, con numerose pièces di carattere storico e filosofico, egli si era sempre astenuto dall’assistere alle messe in scena dei suoi testi[8].

In quell’estate del 1936, invece, la congiuntura sembrò tanto favorevole e promettente che pure quel vecchio, severo con sé stesso e generoso con gli altri al punto che il collega austriaco Stefan Zweig, in ideale rappresentanza di non pochi né infimi, l’avesse designato “Coscienza d’Europa”[9], anche lui si lasciò trascinare dall’euforia generale e sedette nella platea del Théâtre de l’Alhambra, il 14 luglio.

Nelle settimane in cui le truppe naziste, in spudorata violazione dei trattati, marciavano sulla Renania, mentre i golpisti di Franco consultavano gli orologi nell’imminenza del pronunciamento e Hailé Selassié denunciava alla Società delle nazioni i bombardamenti chimici sulle popolazioni civili perpetrati dagli occupanti italiani, in un contesto così indicativo delle prossime catastrofi, quanto lo potrebbe esser forse l’attuale, Rolland poté infine assaporare il compimento estetico dell’opera che aveva scritto oltre trent’anni prima.

L’allestimento del dramma in tre atti, Le 14 juillet[10], fu sostenuto dalla Maison de la culture[11], fondata da Louis Aragon allo scopo d’imprimere una connotazione proletaria alle arti. Per eseguire la partitura teatrale congegnata dal Maestro di Clamecy, vennero scritturati una quarantina di attori professionisti, assieme a centocinquanta attori-operai. Lo spettacolo si proponeva esplicitamente di coinvolgere il pubblico nell’azione scenica, principalmente tramite una coreografia, prevista in coda alla recita e affidata al danzatore Tony Grégory dell’UTIF[12], la quale esaltasse l’aspetto festoso e la gioia liberatoria degli eventi rivoluzionari, una “ronde de la paix et de la fraternité”. Contribuirono alla composizione delle musiche di scena sette affermati autori, tra cui Darius Milhaud, Georges Auric e Arthur Honegger. Le scenografie furono arricchite da una tela commissionata a Pablo Picasso e l’effetto generale eccitò il compassato creatore fino a fargli esclamare:

 

«[…] il sipario di Picasso è un rebus gigantesco: il Fascismo, uccello rapace, sostiene il bestiale capitalismo, ormai prossimo a crollare. Di fronte ad esso, un uomo barbuto si libera delle spoglie d’un animale, e porta sulle spalle un giovane genio, circonfuso di stelle.

Il pubblico non inizia a reagire che all’apparizione di Marat, il cui nome scatena gli applausi. A partire da questo momento, va sempre più esaltandosi. Segue l’azione, ribollendo. Le battute di Hoche, di Marat, di Robespierre sono interrotte dalle acclamazioni. Io stesso sono sorpreso dalla potenza di propaganda rivoluzionaria della mia opera. Essa nasconde cumuli d’esplosivi. Comprendo che nessun governo, prima di questo, abbia mai tentato di farla rappresentare. Mi si rimprovererà sulla stampa di averlo disseminato di allusioni agli avvenimenti d’attualità; e – ciò è vero – costantemente alcune frasi s’addicono bene ai nemici del Fronte popolare, ma anche agli avvenimenti di Spagna, da un mese a questa parte. Si badi bene che il testo, senza alcun cambiamento, risale ad oltre trent’anni fa…»[13]

 

Già allora, ad inizio secolo, Rolland era stato capace di pregustare il destino del proprio Théâtre de la Révolution, se è vero che, nei commentari che accompagnarono l’edizione dell’opera per i tipi dei «Cahiers de la Quinzaine» di Charles Péguy, affermava:

 

«Si tratta qua, come indica il titolo, d’una festa popolare, la festa del popolo di ieri e di oggi. Perché abbia tutto il suo senso, bisognerebbe che il pubblico stesso vi partecipasse, che si mescolasse ai canti e alle danze finali. La musica deve giocarvi un ruolo essenziale. Il suo compito è di precisare il senso eroico della festa e di colmare i silenzi che una folla teatrale non può mai riuscire a riempire completamente, che si aprono, nonostante tutto, in mezzo alle sue grida e che distruggono l’illusione della vita continua. Non è necessario che il pubblico colga tutte le parole della folla, non più che tutte le note dell’orchestra e dei cori; bisogna che abbia soltanto l’impressione d’una sagra trionfante. Io vorrei, inoltre, l’ossessione imperiosa d’un tema – tema della gioia e dell’azione –, tema della Libertà che conquista il mondo… […] il medesimo inno, ripreso dai cori sulla scena e su tutti i piani della sala, su tutti i lati della piazza, da gruppi di voci, da piccoli cori o da piccole orchestre, che circondano il pubblico e lo forzano moralmente a cantare con loro – Se questo pubblico è composto, solo in parte, da uomini del popolo e da giovani che sentono, per loro conto, le passioni della Rivoluzione, io rispondo che canterà.»[14]

 

Eppure, solo allorquando nelle strade di Barcellona erano già in corso i primi scontri della Guerra civile, preludio europeo alla totale, soltanto allora, Rolland ebbe la verifica della bontà dei propri postulati estetici, tant’è che le repliche del suo dramma si protrassero ben oltre il termine stabilito e i cittadini di Parigi continuarono a gremire, ogni sera, tutti i duemila posti del teatro, dal 14 luglio fino al 10 agosto.

Fosse sancita, una volta per tutte, la generale subalternità al pensiero ed al linguaggio dominante, a questo punto, dovremmo concludere, in fretta e furia, che una simile saldatura d’intenti, tra energie materiali e risorse spirituali, tra ceto intellettuale e classe lavoratrice, non sia più proponibile.

Poiché la cronaca immortala, da un pezzo a questa parte, solo i reperti quotidiani d’una cultura imperialista e bellicista, che non recede da alcuno dei crimini di cui la Storia illustra l’esaustivo repertorio, né si esime dal prelibare quei nuovi che il progresso tecnico dell’empietà metta a disposizione soltanto adesso, dal momento che il conflitto capitalistico evolve le sue forme nella vita quotidiana, organizzata in società dello spettacolo, visto che l’involucro delle democrazie viene strappato via dalle alluvioni, metaforiche e concrete, che caratterizzano il destino della civiltà liquida, tanto che alla stessa Reale Accademia di Svezia scivoli di mano il prestigio della neutralità e la belligeranza si riproduca fin dentro le coscienze sottoposte al diluvio mediatico, ben più in fretta di quanto gli esseri umani possano amarsi sotto le condizioni imposte dalle guerre commerciali e dai mutamenti climatici, per tacere dei bombardamenti tattici o strategici, pertanto, a me e a te, che mi leggi, a noi, in rappresentanza d’una umanità futura la cui autoconsapevolezza potrebbe andar formandosi fin d’ora e, comunque, si formerà, a noi spetta di incarnare la coscienza, non solo d’Europa, ma del mondo, conosciuto e immaginato dai popoli, affermare ciò che le istituzioni vigenti – economiche, politiche e culturali – hanno fino ad oggi negato: le libertà rivoluzionarie, materiali e spirituali, che serviranno a comporre la pacifica democrazia dei popoli del mondo.

 



[1] Romain Rolland (Clamecy, 29 gennaio 1866 - Vézelay, 30 dicembre 1944) nacque nel dipartimento della Nièvre, tra la valle della Loira e quella del fiume Yonne. La famiglia, nelle cui ascendenze figuravano contadini ma anche notai, si trasferì a Parigi quando Romain aveva sette anni. Nella capitale, frequentò dapprima il Lycée Saint-Louis e quindi il Louis-le-Grand, con tanto buon profitto da esser poi ammesso all’École normale supérieure, nel 1886, frequentando i cui corsi venne in contatto coi poeti Paul Claudel (Villeneuve-sur-Fère, 6 agosto 1868 - Parigi, 23 febbraio 1955) e André Suarès (Marsiglia, 12 giugno 1868 - Saint-Maur-des-Fossés, 7 settembre 1948). In seguito, come membro dell’École française di Palazzo Farnese, trascorse due anni a Roma, tra il 1889 e il 1891, dove strinse amicizia con Malwida von Meysenburg (Cassel, 28 ottobre 1816 - Roma, 23 aprile 1903), anziana precorritrice del femminismo, nonché ispiratrice di Wagner e Nietzsche. Al ritorno in patria, sposò Clotilde Bréal, figlia di Michel Bréal (Landau in der Pfalz, 26 marzo 1932 - Parigi, 25 novembre 1915), linguista ed ideatore della semantica, professore di grammatica comparata all'École pratique des hautes études e al Collège de France, dove ebbe tra gli allievi Ferdinad de Saussure (Ginevra, 26 novembre 1857 - Vufflens-le-Château, 22 febbraio 1913).

[2] Nelle elezioni legislative, svoltesi in doppio turno il 26 aprile e il 3 maggio 1936, la coalizione dei partiti di sinistra, composta dai socialisti della SFIO (Section française de l'Internationale ouvrière), dai comunisti del PC-SFIC (Parti communiste-Section française de l'Internationale communiste), dal Partito Radicale (Parti républicain, radical et radical-socialiste) di Édouard Daladier (Carpentras 18 giugno 1884 - Parigi, 10 ottobre 1970; a più riprese Primo ministro in diversi gabinetti, durante gli anni Trenta e fino al tragico ingresso nella Seconda guerra mondiale) e da altre formazioni minori, ebbe una netta affermazione, cui seguì, il 4 giugno, l’insediamento del governo diretto da Léon Blum (Parigi, 9 aprile 1872 - Jouy-en-Josas, 30 marzo 1950).

[3] Considerato, oggi, uno dei padri della moderna musicologia, Rolland insegnò Storia della musica alla Sorbona dal 1904. Nel 1911 diresse, inoltre, la sezione musicale dell’Institut français de Florence di Palazzo Lenzi.

[4] Romain Rolland, Jean-Christophe (1904-12). Ciclo di dieci volumi ripartiti in tre serie: Jean-Christophe, Jean-Christophe à Paris e La Fin du voyage, pubblicati nei «Cahiers de la Quinzaine», rivista bimestrale, apparsa a Parigi dal 1900 al 1914, fondata e diretta da Charles Péguy (Orléans, Loiret, 7 gennaio 1873 - Villeroy, Seine-et-Marne, 5 settembre 1914). In Italia, sono stati pubblicati: Gian Cristoforo, Sonzogno, Milano 1920-25, traduzioni di Cesare Alessandri (III) e G.A. Piovano; Jean-Christophe, Editori riuniti, Roma 1966, traduzione di Gianna Carullo, prefazione di Carlo Bo.

[5] Trovandosi in Svizzera al momento della dichiarazione della Prima guerra mondiale, decise di stabilirvisi al fine di meglio promuovere le proprie idee pacifiste. I suoi numerosi interventi sulla stampa del Paese neutrale vennero raccolti, in seguito, nei volumi Au-dessus de la mêlée, Librairie Paul Ollendorf, Paris 1915 (Come in forza d’una strana nemesi delle Muse contemporanee al gran massacro taylorista, l’editore che curò la pubblicazione rollandiana fu il medesimo che un paio d’anni prima aveva rifiutato il manoscritto dei primi volumi della Recherche di Marcel Proust, con la sbrigativa motivazione: «Sarò ottuso, ma non posso comprendere come un signore possa impiegare trenta pagine per descrivere come si giri e rigiri nel letto prima di trovare il sonno») e Les Précurseurs, Éditions de «L’Humanité», Paris 1919. Nel novembre del 1916, l’Accademia svedese gli conferì il Premio Nobel per la Letteratura del 1915, «come un omaggio all’idealismo della sua produzione letteraria e alla simpatia e all’amore della verità con la quale ha descritto i differenti tipi dell’essere umano».

[6] Romain Rolland, Mahatma Gandhi, Librairie Stock, Paris 1926. A conferma di un’indole antesignana delle successive tendenze dei Cultural studies, egli non fu permeabile soltanto alle teorie del Satyagraha elaborate dalla Grande anima di Porbandar, si interessò altresì, per far solo un esempio, alla lotta del popolo nicaraguense contro l’occupazione degli Stati Uniti ed entrò in corrispondenza con l’eroe nazionale Augusto Sandino (Niquinohomo, 18 maggio 1895 - Managua, 21 febbraio 1934). Quanto lucida e precoce fosse in lui la critica di quella cultura che, tutt’oggi, vanta pretese egemoniche e globalizzatrici, lo testimonia anche un articolo apparso sul numero del marzo-aprile 1918 della «Revue politique internationale» di Losanna e poi confluito nella silloge Les Précurseurs, nel quale, esprimendo la convinzione che un’autentica cultura di pace si possa affermare soltanto con il sussidio della pedagogia e tramite l’istruzione di specifici programmi di studio fin dall’educazione primaria, egli osservava «che bisogna essere liberi dinanzi a ciò che si ammira e non lo si è restati dinanzi al pensiero classico – ché la forma dello spirito greco-latino, la quale ci rimane attaccata al corpo, non risponde più ai problemi moderni – ché essa impone agli uomini che l’hanno subita, fin dall’infanzia, dei pregiudizi opprimenti, di cui, nella maggior parte dei casi, non si disfanno mai e che pesano crudelmente sulla società odierna».

[7] Nel 1934, Romain sposò, in seconde nozze, Marija Kudaševa (Mosca, 21 maggio 1895 - Clamecy, 27 aprile 1985), cittadina russa di madre elvetica. L’unione suscitò cospicue polemiche, giacché esponenti di rilievo dell’anticomunismo francese, quali Georges Duhamel (Parigi, 30 giugno 1884 - Valmondois, 13 aprile 1966) o Henri Guilbeaux (Verviers, 5 novembre 1884 - Parigi, 15 giugno 1938), subodorarono le trame delle autorità sovietiche per affiancare allo scrittore di fama internazionale una donna in grado d’influenzarlo. In effetti, l’avvicinamento di Romain alla Terza internazionale datava almeno dal 1932, allorché fu tra i promotori, a fianco di Henri Barbusse (Asnières-sur-Seine, 17 maggio 1873 - Mosca, 30 agosto 1935), del cosiddetto “movimento Amsterdam-Pleyel”, articolatosi, per protestare contro la guerra imperialista sotto l’egida del Partito comunista e della Terza internazionale, in due congressi, il primo tenutosi ad Amsterdam, nell’agosto del 1932, e il secondo alla Sala Pleyel di Parigi, nel giugno del 1933. Nel 1935, per giunta, assieme alla questionata consorte e su invito del collega Maksim Gorkij, si recò in visita a Mosca, dove fu ricevuto da Stalin in persona.

[8] Erano trascorsi appena cinque mesi dal celebre J’accuse di Émile Zola, quando il dramma Les loups di Romain Rolland venne rappresentato al Nouveau-Théâtre, per la regia di Lugné-Poe, nome d'arte di Aurélien Marie Lugné (Parigi, 27 dicembre 1869 - Villeneuve-lès-Avignon, 19 giugno 1940), impresario alla cui arditezza il pubblico della capitale era debitore delle messe in scena di autori tra i più validi e controversi, quali André Gide, Henrik Ibsen, George Bernard Shaw, Gerhart Hauptmann, August Strindberg e, persino, l’eversivo Alfred Jarry. Nell’opera d’esordio, il nivernese aveva trasposto le vicende del famoso Affaire Dreyfus al tempo del Terrore, nel 1793, scelta che non mancò di attizzare le già incandescenti polemiche. Seguirono Le Triomphe de la raison (1899), Danton (1899) e Le Quatorze Juillet (1902), i quali dovevano costituire, nelle intenzioni dell’autore, le parti d’un ciclo che lui stesso denominò “Théâtre de la Révolution”, inteso ad illustrare al pubblico contemporaneo l’attualità del messaggio storico della Rivoluzione. Da lì a breve, le sue teorie drammaturgiche erano state inoltre precisate in un testo teorico: Le Théâtre du Peuple, Cahiers de la Quinzaine, Paris 1903.

[9] Stefan Zweig (Vienna, 28 novembre 1881 - Petrópolis, 22 febbraio 1942), quindici anni più giovane dello scrittore francese, lo tenne in stima di maestro fin dalle prime visite in boulevard du Montparnasse, nel febbraio del 1911. La corrispondenza tra i due si era intensificata nei disagevoli anni della guerra, al termine della quale il viennese dette alle stampe la biografia del blasonato amico, contenente l’iperbolico encomio suaccennato: Romain Rolland. Der Mann und das Werk, Rütten & Loening, Frankfurt 1921.

[10] La pièce, stampata nell’undicesimo volume dei «Cahiers de la Quinzaine», il 18 marzo 1902, era stata presentata sulle scene, tre giorni dopo, al Théâtre de la Renaissance, con la regia di Firmin Gémier (Aubervilliers, 1869 - Parigi, 1933). Trentaquattro anni dopo, il dramma popolare fu allestito, il 14 luglio 1936, al Théâtre de l'Alhambra, registi Jacques Chabannes (Bordeaux, 13 ottobre 1900 - Issy-les-Moulineaux, 16 giugno 1994) e Sylvain Itkine (Paris, 8 dicembre 1908 - Saint-Genis-Laval, 20 agosto 1944).

[11] Ebbe la prima sede al numero 22 di rue de Navarin, condivisa con quella della Association des écrivains et artistes révolutionnaires (AEAR), creata in Francia nel marzo 1932, come sezione della Meždunarodnogo ob″edinenija revoljucionn′ich pisatelej (Unione internazionale degli scrittori rivoluzionari), fondata a Mosca nel novembre 1927.

[12] Union des théâtres indépendants de France, denominazione assunta, dopo la costituzione del Fronte popolare, dalla Fédération du théâtre ouvrier de France (FTOF), sorta nel gennaio 1931 con lo scopo di servire le organizzazioni rivoluzionarie, nello specifico il PC-SFIC e la CGTU (Confédération générale du travail unitaire).

[13] Dal sito della Association Romain Rolland http://www.associationromainrolland.org/image_lieux/page15.pdf

[14] Romain Rolland, Théâtre de la Révolution, Hachette, Paris 1909. Il testo tradotto fa parte dei commentari inclusi nel volume assieme ai tre drammi Le Quatorze juillet. Danton e Les loups.

Il fine secolo del nostro scontento

 articolo di Giancarlo Micheli

pubblicato su Rivista di Studi Italiani (Anno XLII, n.2, agosto 2024)

 

 


Potremmo iniziare dalla fine e dipanare gli eventi a ritroso, come su un’ideale pellicola, a partire da un generico lunedì mattina in cui una qualsiasi delle cento città d’Italia torna al lavoro, la lente dell’obiettivo appena appannata da una lattiginosa foschia, cosicché risulti quasi naturale la transizione dai colori fiochi del paesaggio, soffocati in un miscuglio rasoterra di vapore acqueo e ossidi di carbonio, alle immagini in bianco e nero delle emissioni televisive.

Perché no? In fondo, non è per nulla irragionevole supporre che il deputato della Repubblica Paolo Volponi abbia aperto gli occhi sull’ultimo giorno della vita proprio mettendoli a fuoco, al di là della finestra dell’ospedale delle Torrette, oltre l’umida cortina che un debole grecale sprimacciava, verso alcuni squarci d’azzurro, recisi lassù, come brandelli d’una garzatura, al di sopra del porto, dove un papa umanista aveva atteso invano la flotta che lo conducesse all’apoteosi di un’ultima tardiva Crociata e un imperatore, nato nella provincia della Hispania Terraconensis, aveva attraversato l’Arco intitolatogli dal Senato e dal Popolo romano.

Se avessimo fatto a tempo a recargli un’estrema visita e i legittimi custodi della sua pace ce la concedessero, siamo certi che ci correggerebbe e preciserebbe che il suo incarico parlamentare sia decaduto ormai quattro mesi fa, con lo scioglimento anticipato della XI legislatura e con l’avvento della successiva, che ha riportato gli eredi del fascismo al governo del Paese ed è venuta approntando gli strumenti e i metodi della dittatura mediatica contemporanea, grazie all’ufficio storico d’un prorogato uomo del destino, un cavaliere nazional-popolare, tutto unto di monopolio dal toupet alle scarpe dal tacco rinforzato, tali da reggere il confronto e tenere il passo, in garanzia, fino a quelle d’un omologo francese.

Subito dopo, non senza qualche inflessione stilistica tale da evocare il discorso libero indiretto nel quale un Anteo Crocioni, il protagonista delle Macchina mondiale, aveva cercato rifugio alla periferia d’una civiltà ostile e imperscrutabile, così come l’autore di lui lo aveva trovato, tra Cervantes e Kafka, in mezzo alle nobili macerie della letteratura, subito dopo, il degente avrebbe tenuto a ribadire d’esser lieto almeno di poter ricevere le cure palliative contro la fatale malattia dei reni a carico della sanità pubblica, in favore della quale si era battuto entro i limiti del possibile, dapprima semplice nativo d’un antico insigne ducato, quindi studente di legge e poeta, ed infine, per quasi un decennio, senatore del PCI.

Converrebbe d’aver fatto quel che ha potuto, mentre assesta il proprio peso contro lo schienale e non dissimula un pur minimo sorriso, ove trapela una fugace ironia, benché il suo oggetto presenti implicazioni assai serie e inerisca alla cosiddetta IoT, Internet of Things. Non ci sorprenderemmo qualora gli siano tornati in mente altri brani in cui aveva amplificato e sintonizzato quell’idea destinata a farsi industria, finché non gli era riuscito di conferire un punto di vista diegetico adeguato a poltrone aziendali, scope, piante decorative e quant’altro. Forse ha immaginato, giusto adesso, quali reazioni, in termini linguisticamente elaborati, possano mai suscitare su quel telaio di tubi metallici gli assestamenti e i sussulti del corpo che vi adagia, fiacco a causa del morbo, eppure ancora inquieto.

Non escluderemmo che voglia già congedarci, affinché riprenda lui stesso, una volta ancora, il filo di quel discorso, progetto, organismo, delle sue membra, guaine, articolazioni, zooidi, nel qual caso lo asseconderemmo con premura, seppur senza devozione. Lo saluteremmo, comunque ammirati per la caparbietà di voler avanzare nell’indistinto, nella nebbia, fin dove il mistero dell’origine circonda tutti da tutti i lati, fino all’ultimo istante.

Potrebbe darsi che, invece, desideri trattenerci ancora un po’, tanto più laddove i medici valutino che la nostra compagnia non turbi lo stato dei parametri vitali, di modo che, schiaritasi la voce con flebili colpi di tosse, ci sussurri come proprio quelli fossero i brevetti di cui i monopoli dell’elettronica parevano voler concedere lo sviluppo all’azienda eporediese, al tempo in cui l’Ingegnere dovette traghettarla nelle acque procellose della globalizzazione, sembra ieri. Per un attimo il volto gli si contrae ad esprimere stupore: non gli sembra vero che siano passati vent’anni dacché lasciò il ruolo di direttore del personale e ben trenta dalla morte, in circostanze tuttora per larghi versi oscure, dell’erede del fondatore, colui che era riuscito a far produrre alle sue maestranze il primo personal computer. Una patina di amarezza gli trascorrerebbe sui lineamenti, quando constatasse, verosimilmente, che il suo sfortunato datore di lavoro dovette patire una certa subalternità persino postuma, giacché un celebre collega, poco dopo di lui, fu immolato secondo modalità ben più acconce a simbolizzare la vittimizzazione nazionalistica al cospetto del dato oggettivo della violenza del Capitale.

A questo punto, non si asterrebbe da una conclusiva esecrazione degli interessi che manovrano dietro lo sfruttamento del crollo sovietico e dietro la Guerra del Golfo, gli stessi che ha cercato di mettere a nudo nel suo lavoro di scrittore e anche, come rappresentante dei cittadini, all’interno dello Stato che se ne è fatto, via via, complice:

 

Ci vuole un uomo diverso, più animale, più coraggioso, più attivo per immaginare una possibilità di uscire dalla fine del mondo. Io di certo non sono uno scrittore facile, contento, felice, che serva per scrivere dei libri che piacciono alla gente, che la accontenti, la segua in villeggiatura e la faccia dormire alla sera. Io ritengo che il libro debba avere dei contenuti di dibattito, di scontro, perché nella lettura chi legge deve aumentare il proprio spazio psicologico e anche il proprio spazio storico. Cosa vuol dire spazio psicologico? Mettere dentro la lettura sé stesso, con tutti i propri problemi, e cercare di venir fuori dalla lettura arricchito, anche nel confronto con sé stesso e con i propri problemi. Certo, leggere in questo modo non è leggere per accontentarsi, per capire come va a finire una storia o solo per divertirsi o per svagarsi, è piuttosto leggere per fortificarsi. In questo modo, perché aumenta lo spazio storico? Perché un cittadino più colto, più cosciente di sé stesso, dei propri doveri, dei propri dolori, dei propri diritti, della propria capacità di stare al mondo come cittadino, è politicamente più forte e quindi aumenta la sua possibilità di intervento sul piano politico e storico.[1]

 

A beneficio di chi non l’avesse ancora realizzato, vorrebbe tornare un istante sull’argomento toccato in precedenza e ci terrebbe a puntualizzare che si trattava proprio di quella tecnologia efficace a dotare ogni elemento d’una rete di dispositivi della funzione di scambiare dati tra di loro e con un elaboratore centrale, così da ampliare la complessiva capacità d’interazione in un ambiente al quale l’uomo si adatti in termini sempre più ergonomici ed automatici, finché, in un futuro che lui non sa definire, tanto meno adesso, quando gli restano solo poche ore, un altro brevetto, come un ineffabile spirito della liquidità, precipitasse e fosse raccolto in tutte le percezioni e le risollevasse dalle loro stesse polveri, in un turbine, un grande e nuovo empito di democrazia, crescita, competizione, mutuo inganno, distruzione, fallimento e differimento finale al prossimo bilancio consuntivo.

Noi taceremmo, per schietta compassione, sui pericoli dell’AI come li interpreta, oggi, un Elon Musk o quali potremmo interpretare noi stessi, cosicché un silenzio più acconcio al fiato d’un paziente terminale accoglierebbe il regesto dei suoi interventi parlamentari, ad iniziare dal più recente.

Esordirebbe, pertanto, dal rimarcare che la sua ultima interrogazione, in veste di deputato del Partito della Rifondazione Comunista, fu quella del 21 ottobre 1992, nella quale tornava a chiedere il ripristino della linea ferroviaria Fano-Urbino, dopo averlo caldeggiato già in due precedenti interventi, sia durante la IX che durante la X legislatura, allora nell’aula di Palazzo Madama.

Colui che, una volta consumata la “svolta della Bolognina”, non ebbe remore a completare la parabola che dalle posizioni giovanili, vicine all’area azionista, l’aveva respinto sempre più alla sinistra dell’arco parlamentare, pazientemente, ci spiegherebbe:

 

Prima della guerra venivamo a Roma in treno comodamente. Infatti, vi era un treno che in un’ora collegava Urbino con Fabriano dove vi era la coincidenza per Roma. Ebbene, questo treno è stato distrutto dalle truppe di occupazione naziste che avevano capito l’importanza di tale ferrovia; essa costituiva un collegamento trasversale, metteva in collegamento le zone interne tra il Nord e il Sud del paese, entrava in qualche modo all’interno dell’Appennino ed era di grande comodità in quanto serviva un vasto territorio. La sistematica distruzione ponte per ponte è avvenuta proprio perché le truppe tedesche – lo ribadisco – avevano capito che si trattava di una ferrovia assai importante.

La nostra Repubblica si è sempre vantata di aver ricostruito tutto, di aver riparato ad ogni danno di guerra, di aver riedificato ogni casa abbattuta, ogni istituto, ogni struttura, ogni pubblico monumento. Ciò invece non è avvenuto per Urbino, che non ha riavuto questa ferrovia indispensabile alla sua economia, alla sua università, alle sue piccole industrie che allora esistevano, ai suoi artigiani, alla sua popolazione, al suo vasto territorio montano che sprofonda verso la Romagna e che nella ferrovia aveva delle possibilità di aggancio al resto del paese.[2]

 

Si dilungherebbe, inoltre, a specificare che il progetto di una ferrovia subappenninica, che congiungesse Sant’Arcangelo di Romagna, sulla linea Bologna-Ancona, a Fabriano, su quella Ancona-Roma, era stato inserito nel testo della legge Baccarini del 1879, giacché sarebbe stata meno esposta ai bombardamenti navali di quanto non avesse dimostrato di esserlo, già dal conflitto con l’impero asburgico del 1866, il percorso litoraneo. La tratta da Urbino a Sant’Arcangelo non venne mai completata, ma almeno dalla vecchia capitale ducale fino a Fabriano, per cinquant’anni, si era potuto viaggiare attraverso Fermignano e Pergola.

Viste le sue intenzioni, non sarebbe inopportuno, al fine di non affaticarlo invano, intrometterci e coglierne spunto per encomiare la richiesta contenuta nell’interrogazione che, tre mesi prima, presentò al ministro competente, un grand commis dell’ordine dei giornalisti, che un camerlengo maggiore del socialismo patrio aveva espressamente cooptato nel proprio gabinetto:

 

Onorevoli colleghi! Nel 1946 sono stati ritrovati a Cartoceto di Pergola (Pesaro) i resti di sculture bronzee, risalenti al I secolo d.C. Il Consiglio superiore delle antichità e belle arti nel 1958 espresse il parere di assegnare i bronzi al Museo archeologico nazionale delle Marche di Ancona. Le sculture, trovate in pezzi, sono state mirabilmente restaurate dal Centro di restauro della Soprintendenza archeologica per la Toscana di Firenze e sembrano rappresentare Livia, moglie di Augusto e madre di Tiberio, Agrippina Maggiore, moglie di Germanico, e i due figli Druso Cesare e Nerone Cesare. Si discute se le statue siano state fatte a pezzi e sepolte per una damnatio memoriae oppure perché trafugate e nascoste da briganti durante un loro spostamento.[3]

 

Rimpiangendo di non aver goduto alcun titolo per sostenerla, elogeremmo, dunque, la proposta di assegnare le statue al Centro operativo e museale di Pergola, in virtù della sua coerenza al principio elettivamente volponiano di diffondere la cultura in modo capillare, ovunque nei diversi territori, di cui rigenerare continuamente l’identità in fertile relazione con le realtà produttive, quelle sociali e istituzionali, le risorse naturali e storiche, secondo quel che era venuto esponendo in un’iniziativa di legge per il recupero e la valorizzazione del patrimonio storico, artistico e ambientale della città di Urbino e dei comuni dell’area del Ducato di Montefeltro e Della Rovere, presentata il 6 luglio 1992.

Lo prende un vistoso moto d’insofferenza, da dentro, tant’è che tenta di sollevare le spalle puntellando i gomiti sul materasso e, quando vede l’ampolla sopra di sé, gli pare che il liquido che vi è contenuto non vada su né giù, quasi una Sibilla, tutta stracciata e consunta, fosse stata risucchiata in fondo all’erogatore e avesse finito per ostruirlo. Chiamiamo noi l’infermiera, affinché sistemi la cannula della fleboclisi, ma lui non dà l’impressione di ricevere un immediato beneficio dalla pur abile operazione. Non ci viene certo in mente di rivelargli, proprio adesso, che un esponente particolarmente abietto, tra gli eredi di prima, rivestirà, in un futuro non lontano, nientemeno che la carica di prosindaco della città che ha tanto amato. Per fortuna, sembra si sia già ripreso e sorprendiamo il suo sguardo, allorché riapre le palpebre affrante, insistere sui fianchi sodi dell’infermiera, la quale si è appena voltata per uscire, cosicché ci concede la ragionevole speranza che gli abbia suscitato il ricordo della procace Massimina, cui sarebbe andato dietro, nei panni di Anteo, fino alla capitale e fino in capo al mondo, al tempo in cui da Pergola si poteva ancora prendere il treno per arrivarci.

L’incidente è servito quantomeno a rianimarlo momentaneamente dalla spossatezza sintomatica d’una severa insufficienza renale, se è vero che, riscossosi come da uno dei caratteristici turbamenti etici patiti dal padre Dante lungo la discesa per i gironi dell’Inferno, ora è lui che guida noi nel risalire la corrente degli anni, a guisa di risanato Virgilio.

Vuol parlarci del suo intervento al Senato nel dibattito sulla legge finanziaria per l’esercizio 1992, per l’anno, dunque, che avrebbe funestato i patri arenghi della politica, una volta che l’inchiesta “Mani pulite” trovasse l’acconcio tribuno di modo che, previ un paio di governi blasonati da presunte integrità della tecnica giuridica e finanziaria, l’idea d’un civile progresso industriale ricadesse tra i pollici opponibili del massimo autocrate dell’apparato editoriale-industriale, del cantore nazional-popolare per eccellenza, dell’Omero degli italici televisori.

Il declino inesorabile era già denunciato nelle dichiarazioni che fece, allora, al «commendatore di bronzo che aveva comandato i batiscafi con i lingotti d’oro della banca centrale e che avrebbe nel futuro guidato l’ultimo sommergibile dei liberals contro i vandali animaleschi del Pianeta irritabile»[4], il quale, fattosi intanto ministro del Tesoro dello statista la cui gobba albergò una così squisita riserva lipidica da soddisfare tutti gli appetiti democratici nazionali durante le perigliosa traversata dei deserti della Guerra fredda, lo ascoltò non senza cinico disprezzo:

 

Una volta, qualche anno fa, quando avevamo di fronte provvedimenti di questo genere ne vedevamo la stentatezza, l’insufficienza, la frammentazione, ma vedevamo insieme il disegno che li sovrastava, portato avanti non dal Governo ma da quelli che stanno sopra, il grande potere capitalistico, e vedevamo chiaro il disegno sulla salute del grande capitale sopra la stentata conduzione delle piccole leggi prodotte dai Governi della Repubblica. In questo momento, invece, vediamo che anche il grande capitale e i disegni che sovrastavano il Governo non esistono, o sono confusi, altrettanto poveri e altrettanto privi di dottrina, di speranza, di obiettivi e di qualità.

Fatta questa dichiarazione politica mi distinguo fortemente sul piano culturale da un Governo come questo. C’è nel mondo chi teorizza in realtà che con la caduta dell’Est c’è stata anche una contemporanea – se non proprio esattamente nello stesso istante caduta del mondo dell’Ovest. Questo forse è vero ed è teorizzato da grandi studiosi americani. È finito un tipo di economia anche per il capitale; l’economia della bomba è finita. L’industria americana oggi è in una grave situazione di crisi perché deve riconvertirsi, perché ha perso le commesse e i profitti che aveva continuando a costruire gli armamenti e il sistema della bomba. Oggi invece deve fare i conti anche con la crisi che si trova di fronte, perché non è stata capace di arrivare a creare un nuovo sistema, ad immaginarsi un’economia diversa, a rinunciare ai facili profitti delle commesse per rilanciare invece l’industria sul piano della ricerca e della novità. Noi in Italia subiamo pesanti contraccolpi; anche la nostra industria è in crisi e ci troveremo di fronte ad una crisi più grande perché dagli Stati Uniti la crisi dilagherà e arriverà in Europa e in Italia. Come faremo fronte a questa crisi con una legge di tale genere? Manca qualsiasi programma economico nell’attività del nostro Governo, non c’è un principio, non c’è una validità di progetto.[5]

 

Tre giorni prima, al cospetto di quel democristiano tanto pio da tollerare con esemplare compitezza le satiriche punzecchiature con cui i principi del giornalismo lo avevano a lungo assimilato a quello dei demoni dell’inferno, oggi semplice presidente del Consiglio al culmine d’una carriera affine, quanto a durevolezza, all’eternità delle pene laggiù dispensate, il senatore Volponi aveva spronato l’assemblea ad indignarsi a fronte delle recentissime indiscrezioni che il presidente della Repubblica in persona aveva rilasciato alla stampa, fuor di metafora. Come tutti potremmo ricordare, il tema dell’intervista in argomento riguardava ventilate corresponsabilità di alcuni settori del partito, cui appartenevano sia Belzebù sia ‘il picconatore’, nientemeno che nell’assassinio di quel suo stesso martire, il quale aveva sdoganato e condotto i primi governi di centrosinistra, nell’epoca lontana del boom economico, ed era poi stato sacrificato, al compimento del tragico rituale degli Anni di piombo. Da quelle voci di corridoio, innalzate fino all’ugola somma delle istituzioni, arrochite o rese addirittura stridule dalle parvenze di tradizionali e gerontocratiche dialettiche correntizie, l’urbinate aveva udito «sorgere l’altro partito politico che, muovendosi secondo il senso delle esternazioni, non arriva solo alla fine di questa Repubblica, ma anche alla fine di ogni Repubblica democratica del nostro paese»[6].

È convinto di aver giusto toccato una questione strategica, pertinente alle basi elementari d’ogni possibile convivenza democratica, quand’ecco che gli tocca di prenderla di petto un’altra volta, per giunta in una situazione di coinvolgimento personale non certo propizia, tale che gli costi uno sforzo assai insalubre rammentare il proprio intervento durante dibattito del 17 ottobre 1991, in cui era in esame il riordinamento del Servizio sanitario nazionale che sarebbe stato tradotto in decreto di legge nell’anno seguente. In quella seduta, sostenne che tale legge avrebbe procurato danni difficilmente riparabile, in forza della pretesa, da cui era informata, di sostituire con un manager il consiglio democratico nominato dai Comuni: «un manager, parola mitica e di moda, ma brutta, che non vuol dire nulla specialmente in italiano perché la traduzione sarebbe “maneggione”, “colui che maneggia” e non altro»[7]. Ancora adesso, quando la fibra dolente gli darebbe numerosi stimoli divergenti e di tutt’altra eziologia, gli pare di non doversi lamentar d’altro che dell’amara previsione che codesti «managers, che mancano persino alle nostre grandi industrie che non sanno dove reperirli e li vanno a cercare nel mercato di tutto il mondo, saranno prefetti riciclati, segretari comunali in pensione, amici dell’amico dell’amico e le lottizzazioni diventeranno più feroci di quelle in atto al tempo delle USL che in realtà hanno dato delle buone prove»[8].

La rimembranza deve averlo particolarmente depresso. Affonda il capo nel cuscino e dà segno di preferire fermarsi lì e non desiderare ormai altro se non il riposo. Per un po’ rimaniamo nel dubbio se non sarebbe ritemprante menzionargli almeno una delle cause per cui bagnò di sudore i panni del laticlavio che non sia stata del tutto disattesa. Mentre vagliamo come potremmo riuscire a sussurrargli all’orecchio, tra la veglia e il sonno, che quantomeno l’intervento di restauro sugli affreschi aretini di Piero della Francesca, da lui sollecitato, in qualità di membro della VII commissione permanente per Istruzione pubblica, beni culturali, ricerca scientifica, spettacolo e sport, sia stato infine eseguito, sebbene a distanza di tre buoni decenni dalla tempestiva interpellanza, lo vediamo però rianimarsi col ricorso alle sole forze interiori.

Di soprassalto, afferma che bisogna fermare la guerra, che non rimane più tempo, «per colpa della morte/ che viene avanti, al tramonto della gioventù./ Ma per colpa anche di questo nostro mondo umano,/ che ai poveri toglie il pane, ai poeti la pace»[9], come dicono i versi di Pier Paolo. Bisogna fermare questa guerra in Iraq, che anche l’Italia, mimetizzata entro un folto sciame di mosche cocchiere, sostiene e alimenta a maggior provento dell’apparato militare-industriale. In ordine alla discussione del decreto del 19 gennaio 1991, recante ulteriori provvedimenti urgenti in merito alla situazione determinatasi nell’area del Golfo Persico, aveva argomentato:

 

Noi facciamo questa guerra per difendere l’interesse capitalistico al quale è legato il nostro livello di vita. Ma questo vuol dire che noi approfondiremo sempre di più il solco tra noi e i paesi sottosviluppati; che tutte le altre operazioni che si mettono in atto sono di mistificazione, che non c’è né politica estera, né cultura, ma solo una serie di inganni per difendere un privilegio che ormai è ridotto a quello di una cittadella arenata. L’Europa e l’America costituiscono una fortezza armata nei confronti del mondo, lo dominano e ne vogliono le risorse. I problemi dei piccoli paesi intorno non contano; il diritto internazionale è condizionato da questa realtà, è una conseguenza di questa realtà. […] Per questo noi diciamo basta alla guerra e lo facciamo con chiare e oneste intenzioni di arrivare alla pace e di lavorare per essa, perché crediamo che il lavoro sia pace, che la giustizia sia pace e il rapporto fra la gente, mettendo le grandi e le piccole nazioni a confronto e trovando un piano nuovo e armonico sostenuto dalle popolazioni e dalle culture dell’Oriente, sia pace; altrimenti saremmo brutali ed indegni di essere arrivati alla fine di un secolo sanguinario come questo, lontani dalle Crociate, ma vicinissimi allo stesso spirito[10].

 

Intanto, si è fatto pomeriggio inoltrato. Su sua richiesta, andiamo ad aprire la finestra. Fa molto caldo e il refrigerio offerto da qualche sporadico refolo di vento è relativo. Fuori il cielo pende in larghe campiture, come se sgocciolasse, da vernici acriliche dell’espressionismo astratto, direttamente all’interno della cornice d’alluminio. I ricordi del paziente si fanno rarefatti, man mano che risalgono verso le prime fasi della legislatura: ci scruta con un certo scetticismo mentre enumeriamo brevemente le sue meritevoli iniziative a proposito di cooperazione allo sviluppo, disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato o degli stupefacenti e delle sostanze psicotrope. Ora, però, deterge la fronte con la stoffa del pigiama ed il piglio ne risulta un minimo rinfrancato, allorché rivendica l’appropriatezza delle critiche che rivolse al ministro degli Esteri di quel corpulento socialista che l’Alighieri avrebbe punito, senza indulgenza, nella quinta bolgia dell’ottavo cerchio ma cui gli italiani non poterono far altro che elicitare l’esilio, all’esaurirsi d’uno sciagurato cursus honorum da lì a sette anni, tramite un fitto lancio d’unità di conto in piccola taglia. Codesto ministro altri non poteva essere che l’esimio perito di malebolge del quale si accennò sopra e la materia della contestazione la riforma degli istituti italiani di cultura all’estero, riguardo alle cui norme regolatrici Volponi deprecò che «gli aggiustamenti che sono stati apportati alle vecchie leggi del 1926 e del 1940, con l’intervento legislativo del 1950 e la circolare ministeriale n. 42 del 1955, hanno scrostato l’apparato di propaganda culturale del regime fascista, ma si sono nella sostanza limitati alla creazione di strumenti di politica estera. Dopo il 1955 sono venuti meno anche questi insufficienti interventi governativi. Lo stato di progressivo abbandono degli istituti di cultura a partire dagli anni Cinquanta e la loro gestione a volte clientelare hanno aggiunto ulteriore danno ad una situazione precaria»[11].

A riprova del fatto che ciò che meglio lo unisce alla vita, anche e soprattutto in questi momenti ineluttabili, sono i temi della conoscenza e della sua trasmissione, egli raduna le energie residue per riconsiderare i concetti che aveva focalizzato nel discorso del 5 febbraio 1985, intorno al nuovo ordinamento della scuola secondaria superiore statale: dopo aver deprecato i riferimenti del testo di legge che orientavano, troppo sbrigativamente, la didattica sulla base delle esigenze del mondo del lavoro, dopo averne stigmatizzato la «subalternità non tanto alle scienze – che sono fondamentali, reali, vere ed utili – quanto alle loro applicazioni del momento, attraverso le tecnologie, le tecniche, i modi attuali di sviluppare le scienze in termini di produzione e di trasformazione della materia e della vita dell’uomo»[12], sottolineava con amarezza che «i ragazzi in terza media non sanno fare un tema compiutamente e con qualche originalità di lingua e contenuto; sanno solamente usare il tempo presente e quello imperfetto ed ignorano il passato remoto ed il futuro, per non parlare del congiuntivo che è diventato un po’ l’emblema della nuova lingua italiana, come il “vadi e il venghi” del cinema e della televisione, cioè dei grandi mezzi di informazione, che anche se vogliono fare della parodia alla fin fine strizzano un occhio ed insegnano che anche questi termini valgono e forse più di altri, immettendo nel sistema della cultura e dell’educazione la furbizia, che rappresenta un tema prevalente nel nostro paese. Insegnano che non si deve studiare e diventare bravi ma si deve essere furbi»[13]. Infine, concludeva:

 

Non vorrei che oggi avessimo un certo senso di inferiorità nei confronti della cosiddetta cultura industriale e che ci accingessimo ad aggiornare rapidamente la nostra scuola ai principi di questa. In fondo questo viene continuamente predicato, quasi comandato, da tanti autorevoli uomini della nostra Repubblica, sia politici che dell’economia, sia di Governo che della cultura, i quali continuano a ripetere che non abbiamo una cultura industriale, che siamo in arretrato, che non sappiamo ricercare.

Ma cosa abbiamo dato, cosa diamo noi alla ricerca scientifica? E poi se la nostra cultura è in arretrato di fronte ai temi dello sviluppo industriale, delle tecniche dell’industria e delle sue necessità, se non c’è questa cultura diffusa nel nostro paese, di chi è la colpa? Direi soprattutto della nostra grande industria, del suo spirito capitalistico, egocentrista e quindi molto elitario e autoritario, tanto più che la nostra è un’industria nata come autarchica, che quindi non avvertiva neanche il bisogno di essere competitiva, di confrontarsi con la concorrenza, di spuntare il confronto con altre industrie su altri mercati. È nata come un’industria protetta, viziata: è un figlio unico di famiglia nobile e ricca, che ha vissuto e ha continuato sempre a vivere di rendita, che ancora oggi vuole vivere di rendita imponendoci tante compatibilità che vanno bene a lui, principe figlio unico, e al suo palazzo, alla sua corte.[14]

 

È tornata l’infermiera, stavolta soltanto per annunciare la conclusione dell’orario per le visite. Senza aver potuto completare la ricognizione degli interventi parlamentari volponiani, obbligati ad omettere sia un’appassionata requisitoria sulla pressoché atavica questione meridionale, sia le fiere battaglie ingaggiate contro il governo del suddetto pingue premier del PSI, sotto la cui leadership la classe lavoratrice, della quale in teoria costui era purtuttavia un rappresentante, dovette rimangiarsi tutte le conquiste conseguite con le lotte dei decenni precedenti, attraverso lo stillicidio dei decreti sull’indennità di contingenza e quant’altro, in silenzio prendiamo congedo. Paolo dorme. Il suo volto adesso pare disteso. Ci resta la speranza che il colloquio odierno gli abbia in qualche modo giovato e che adesso riposi in pace.

Sulla via del ritorno, le costellazioni estive già inondano il lunotto dell’automobile con la loro lucente risacca. Se il fracasso del motore lo consentisse, siamo certi che, abbassando i vetri del finestrino, udremmo persino il frinire delle cicale, mentre la vettura percorre un lungo viale alberato. Appena imboccata l’autostrada, il telefono squilla. Ci chiamano dall’ospedale. Una voce, con tono grave e professionale, scevro d’ogni accento di cordialità, ci comunica che le condizioni del paziente si sono aggravate e, se vogliano dargli un ultimo saluto, dobbiamo affrettarci a raggiungerlo. Al casello di Senigallia, prendiamo lo svincolo per reimmetterci in direzione opposta. Giunti di nuovo al nosocomio, attraversiamo i corridoi deserti. Non incontriamo nessuno, né un addetto alle pulizie, né un dirigente amministrativo che, espletate le ultime incombenze, si avvii verso l’uscita. La porta del reparto la troviamo chiusa. Premiamo il campanello. Nessuna risposta. Intorno tutto tace. Neppure un suono che, simile ad un remoto richiamo di cetacei, penetri attraverso le pareti a rivelare l’attività che, sia pur attenuata, non può mai cessare del tutto in tali luoghi di degenza. Se questo non è un silenzio sepolcrale, non sapremmo dire affatto quale altro possa esserlo mai: non un medico di turno che, al nostro ennesimo tentativo sul tasto del campanello, venga a redarguirci, sbraitando seccamente che, se dall’interno non ci aprono, vorrà ben dire che siano affaccendati e non sia pertanto il caso di molestarli ulteriormente. Niente di niente. Solitudine e desolazione sono tali da indurci a sospettare che l’intero servizio sanitario nazionale sia stato abrogato e dismesso nel breve lasso di tempo della nostra assenza. Onestamente, non riesce verosimile che un così complesso adempimento burocratico possa essersi consumato tanto in fretta.

Va bene, Paolo, vorrà dire che ci rivedremo, con ogni probabilità, in purgatorio, dove non mancano davvero le motivazioni per darsi da fare e rimettersi al lavoro. Intanto, noi ci appagheremo del fatto che, in mezzo a questo silenzio spettrale ed inquietante, almeno non sia apparso a riceverci un usciere in camicia nera.



[1] Paolo Volponi, intervista a, per la trasmissione Un autore, una città, a cura di Anna Benassi, Roma: Rai, 1979.

[2] Paolo Volponi, Discorsi parlamentari (1984-1992), San Cesario di Lecce: Manni, 2013, pp.115-116.

[3] Ivi, p.205.

[4] Paolo Volponi, Le mosche del capitale, Torino: Einaudi, 1989, p.378.

[5] Paolo Volponi, Discorsi parlamentari (1984-1992), San Cesario di Lecce: Manni, 2013, pp.187-189.

[6] Ivi, p.183.

[7] Ivi, p.174.

[8] Ibidem.

[9] Pier Paolo Pasolini, Al principe in La religione del mio tempo, Milano: Garzanti, 1961.

[10] Ivi, p.159-161.

[11] Ivi, p.89.

[12] Ivi, p.58.

[13] Ivi, p.60.

[14] Ivi, pp.69-70.