articolo di Giancarlo Micheli pubblicato su
IlPonte – rivista di politica economia e cultura fondata da Piero Calamandrei
(Anno
LXXXI, n.1 gennaio-febbraio 2025)
La
guerra e il potere – economico, politico e culturale – sembrano implicati,
nella Storia, in una collusione opprimente e inestricabile. Adesso, forse, più
che in ogni epoca passata. Tant’è vero che, oggi, la sintassi di chi voglia
sostenere, nel merito, tesi difformi dalle maggioritarie debba essere obbligatoriamente
appesantita da tutta una sequela di premesse concessive. In una temperie
sociolinguistica in cui la comunicazione di massa inclina alla lapidarietà
dello slogan pubblicitario e dell’ultimatum terroristico, salterà all’occhio
l’entità del supplizio comminato, o ne risulterà quantomeno evidente la
sofisticatezza al confronto, ad esempio, con la schietta protervia con la quale
il regime fascista soleva esigere dichiarazioni di lealtà.
Proprio
negli anni in cui la dittatura, in Italia, ebbe solida parvenza ed illuse le
moltitudini col sogno effimero d’una millenaria restaurazione augustea e col
primato della razza, la Terza Repubblica francese concedeva onori d’un diverso
genere ad una vecchia gloria della letteratura nazionale.
Nato,
in un borgo del nivernese[1], sullo scorcio d’un altro
caduco impero, quello di Napoléon III, Romain Rolland festeggiò il settantesimo
compleanno nella circostanza, entusiastica e quasi esaltata, dell’ascesa al
governo del Fronte popolare[2].
Benché
egli vantasse, allora, una personalità artistica ed intellettuale congrua ad
una biografia tra le meno scevre di segni di predestinazione, avendo ottenuto
l’agrégation in Storia all’età di appena ventitré anni e una cattedra di
Storia dell’arte all’École normale supérieure a soli ventinove, essendo stato
l’organizzatore del primo Congresso di Storia della musica[3], tenutosi a Parigi
all’alba del ventesimo secolo, nonché l’autore del romanzo in dieci tomi, Jean-Christophe[4], che gli era valsa la
celebrità entro l’anno delle guerre balcaniche e, allo scoppio della Grande
guerra, la fama di assertore d’un pacifismo tanto ben espresso e recepito da
indurre l’Accademia delle scienze di Svezia ad assegnargli il Nobel per la
letteratura[5],
volendo metter poi in conto di succedaneo il merito d’aver fatto conoscere in
Europa il pensiero di Ghandi[6] o quello, più recente,
d’aver aderito alle posizioni della Terza Internazionale ed aver visitato
l’Unione Sovietica, in compagnia della nuova moglie[7] e del fraterno amico
Gorkij, nonostante un così cospicuo coinvolgimento personale negli accadimenti
più decisivi ed emblematici, Romain era un uomo schivo.
Sebbene
avesse discusso la tesi di laurea in Lettere, allorché le prime proiezioni dei
Lumière portarono scompiglio nelle percezioni dei cittadini, proprio su un
argomento d’interesse drammaturgico, Le origini del teatro lirico moderno
(Storia dell’Opera in Europa, prima di Lulli e Scarlatti), benché avesse
esordito, fin da quell’ultima decade dell’Ottocento, con numerose pièces di
carattere storico e filosofico, egli si era sempre astenuto dall’assistere alle
messe in scena dei suoi testi[8].
In
quell’estate del 1936, invece, la congiuntura sembrò tanto favorevole e
promettente che pure quel vecchio, severo con sé stesso e generoso con gli
altri al punto che il collega austriaco Stefan Zweig, in ideale rappresentanza
di non pochi né infimi, l’avesse designato “Coscienza d’Europa”[9], anche lui si lasciò
trascinare dall’euforia generale e sedette nella platea del Théâtre de
l’Alhambra, il 14 luglio.
Nelle
settimane in cui le truppe naziste, in spudorata violazione dei trattati,
marciavano sulla Renania, mentre i golpisti di Franco consultavano gli orologi
nell’imminenza del pronunciamento e Hailé Selassié denunciava alla Società
delle nazioni i bombardamenti chimici sulle popolazioni civili perpetrati dagli
occupanti italiani, in un contesto così indicativo delle prossime catastrofi,
quanto lo potrebbe esser forse l’attuale, Rolland poté infine assaporare il
compimento estetico dell’opera che aveva scritto oltre trent’anni prima.
L’allestimento
del dramma in tre atti, Le 14 juillet[10],
fu sostenuto dalla Maison de la culture[11], fondata da Louis Aragon allo
scopo d’imprimere una connotazione proletaria alle arti. Per eseguire la
partitura teatrale congegnata dal Maestro di Clamecy, vennero scritturati una
quarantina di attori professionisti, assieme a centocinquanta attori-operai. Lo
spettacolo si proponeva esplicitamente di coinvolgere il pubblico nell’azione
scenica, principalmente tramite una coreografia, prevista in coda alla recita e
affidata al danzatore Tony Grégory dell’UTIF[12], la quale esaltasse
l’aspetto festoso e la gioia liberatoria degli eventi rivoluzionari, una “ronde
de la paix et de la fraternité”. Contribuirono alla composizione delle musiche
di scena sette affermati autori, tra cui Darius Milhaud, Georges Auric e Arthur
Honegger. Le scenografie furono arricchite da una tela commissionata a Pablo
Picasso e l’effetto generale eccitò il compassato creatore fino a fargli
esclamare:
«[…]
il sipario di Picasso è un rebus gigantesco: il Fascismo, uccello rapace,
sostiene il bestiale capitalismo, ormai prossimo a crollare. Di fronte ad esso,
un uomo barbuto si libera delle spoglie d’un animale, e porta sulle spalle un
giovane genio, circonfuso di stelle.
Il
pubblico non inizia a reagire che all’apparizione di Marat, il cui nome scatena
gli applausi. A partire da questo momento, va sempre più esaltandosi. Segue
l’azione, ribollendo. Le battute di Hoche, di Marat, di Robespierre sono
interrotte dalle acclamazioni. Io stesso sono sorpreso dalla potenza di
propaganda rivoluzionaria della mia opera. Essa nasconde cumuli d’esplosivi.
Comprendo che nessun governo, prima di questo, abbia mai tentato di farla
rappresentare. Mi si rimprovererà sulla stampa di averlo disseminato di
allusioni agli avvenimenti d’attualità; e – ciò è vero – costantemente alcune
frasi s’addicono bene ai nemici del Fronte popolare, ma anche agli avvenimenti
di Spagna, da un mese a questa parte. Si badi bene che il testo, senza alcun
cambiamento, risale ad oltre trent’anni fa…»[13]
Già
allora, ad inizio secolo, Rolland era stato capace di pregustare il destino del
proprio Théâtre de la Révolution, se è vero che, nei commentari che
accompagnarono l’edizione dell’opera per i tipi dei «Cahiers de la Quinzaine»
di Charles Péguy, affermava:
«Si
tratta qua, come indica il titolo, d’una festa popolare, la festa del popolo di
ieri e di oggi. Perché abbia tutto il suo senso, bisognerebbe che il pubblico
stesso vi partecipasse, che si mescolasse ai canti e alle danze finali. La
musica deve giocarvi un ruolo essenziale. Il suo compito è di precisare il
senso eroico della festa e di colmare i silenzi che una folla teatrale non può
mai riuscire a riempire completamente, che si aprono, nonostante tutto, in
mezzo alle sue grida e che distruggono l’illusione della vita continua. Non è
necessario che il pubblico colga tutte le parole della folla, non più che tutte
le note dell’orchestra e dei cori; bisogna che abbia soltanto l’impressione
d’una sagra trionfante. Io vorrei, inoltre, l’ossessione imperiosa d’un tema –
tema della gioia e dell’azione –, tema della Libertà che conquista il mondo…
[…] il medesimo inno, ripreso dai cori sulla scena e su tutti i piani della
sala, su tutti i lati della piazza, da gruppi di voci, da piccoli cori o da
piccole orchestre, che circondano il pubblico e lo forzano moralmente a cantare
con loro – Se questo pubblico è composto, solo in parte, da uomini del popolo e
da giovani che sentono, per loro conto, le passioni della Rivoluzione, io
rispondo che canterà.»[14]
Eppure,
solo allorquando nelle strade di Barcellona erano già in corso i primi scontri
della Guerra civile, preludio europeo alla totale, soltanto allora, Rolland
ebbe la verifica della bontà dei propri postulati estetici, tant’è che le
repliche del suo dramma si protrassero ben oltre il termine stabilito e i
cittadini di Parigi continuarono a gremire, ogni sera, tutti i duemila posti
del teatro, dal 14 luglio fino al 10 agosto.
Fosse
sancita, una volta per tutte, la generale subalternità al pensiero ed al
linguaggio dominante, a questo punto, dovremmo concludere, in fretta e furia,
che una simile saldatura d’intenti, tra energie materiali e risorse spirituali,
tra ceto intellettuale e classe lavoratrice, non sia più proponibile.
Poiché
la cronaca immortala, da un pezzo a questa parte, solo i reperti quotidiani d’una
cultura imperialista e bellicista, che non recede da alcuno dei crimini di cui
la Storia illustra l’esaustivo repertorio, né si esime dal prelibare quei nuovi
che il progresso tecnico dell’empietà metta a disposizione soltanto adesso, dal
momento che il conflitto capitalistico evolve le sue forme nella vita
quotidiana, organizzata in società dello spettacolo, visto che l’involucro
delle democrazie viene strappato via dalle alluvioni, metaforiche e concrete,
che caratterizzano il destino della civiltà liquida, tanto che alla stessa
Reale Accademia di Svezia scivoli di mano il prestigio della neutralità e la belligeranza
si riproduca fin dentro le coscienze sottoposte al diluvio mediatico, ben più
in fretta di quanto gli esseri umani possano amarsi sotto le condizioni imposte
dalle guerre commerciali e dai mutamenti climatici, per tacere dei
bombardamenti tattici o strategici, pertanto, a me e a te, che mi leggi, a noi,
in rappresentanza d’una umanità futura la cui autoconsapevolezza potrebbe andar
formandosi fin d’ora e, comunque, si formerà, a noi spetta di incarnare la
coscienza, non solo d’Europa, ma del mondo, conosciuto e immaginato dai popoli,
affermare ciò che le istituzioni vigenti – economiche, politiche e culturali –
hanno fino ad oggi negato: le libertà rivoluzionarie, materiali e spirituali,
che serviranno a comporre la pacifica democrazia dei popoli del mondo.
[1]
Romain Rolland (Clamecy, 29
gennaio 1866 - Vézelay, 30 dicembre 1944) nacque nel dipartimento della Nièvre,
tra la valle della Loira e quella del fiume Yonne. La famiglia, nelle cui
ascendenze figuravano contadini ma anche notai, si trasferì a Parigi quando
Romain aveva sette anni. Nella capitale, frequentò dapprima il Lycée
Saint-Louis e quindi il Louis-le-Grand, con tanto buon profitto da esser poi
ammesso all’École normale supérieure, nel 1886, frequentando i cui corsi venne
in contatto coi poeti Paul Claudel (Villeneuve-sur-Fère, 6 agosto 1868 -
Parigi, 23 febbraio 1955) e André Suarès (Marsiglia, 12 giugno 1868 -
Saint-Maur-des-Fossés, 7 settembre 1948). In seguito, come membro dell’École
française di Palazzo Farnese, trascorse due anni a Roma, tra il 1889 e il 1891,
dove strinse amicizia con Malwida von Meysenburg (Cassel, 28 ottobre 1816 -
Roma, 23 aprile 1903), anziana precorritrice del femminismo, nonché ispiratrice
di Wagner e Nietzsche. Al ritorno in patria, sposò Clotilde Bréal, figlia di
Michel Bréal (Landau in der Pfalz, 26 marzo 1932 - Parigi, 25 novembre 1915), linguista
ed ideatore della semantica, professore di grammatica comparata all'École
pratique des hautes études e al Collège de France, dove ebbe tra gli allievi
Ferdinad de Saussure (Ginevra, 26 novembre 1857 - Vufflens-le-Château, 22
febbraio 1913).
[2] Nelle elezioni
legislative, svoltesi in doppio turno il 26 aprile e il 3 maggio 1936, la
coalizione dei partiti di sinistra, composta dai socialisti della SFIO (Section
française de l'Internationale ouvrière), dai comunisti del PC-SFIC (Parti
communiste-Section française de l'Internationale communiste), dal Partito
Radicale (Parti républicain, radical et radical-socialiste) di Édouard Daladier
(Carpentras 18 giugno 1884 - Parigi, 10 ottobre 1970; a più riprese Primo
ministro in diversi gabinetti, durante gli anni Trenta e fino al tragico ingresso
nella Seconda guerra mondiale) e da altre formazioni minori, ebbe una netta
affermazione, cui seguì, il 4 giugno, l’insediamento del governo diretto da
Léon Blum (Parigi, 9 aprile 1872 - Jouy-en-Josas, 30 marzo 1950).
[3] Considerato,
oggi, uno dei padri della moderna musicologia, Rolland insegnò Storia della
musica alla Sorbona dal 1904. Nel 1911 diresse, inoltre, la sezione musicale
dell’Institut français de Florence di Palazzo Lenzi.
[4] Romain Rolland, Jean-Christophe
(1904-12). Ciclo di dieci volumi ripartiti in tre serie: Jean-Christophe,
Jean-Christophe à Paris e La Fin du voyage, pubblicati nei «Cahiers
de la Quinzaine», rivista bimestrale, apparsa a Parigi dal 1900 al 1914,
fondata e diretta da Charles Péguy (Orléans, Loiret, 7 gennaio 1873 - Villeroy,
Seine-et-Marne, 5 settembre 1914). In Italia, sono stati pubblicati: Gian
Cristoforo, Sonzogno, Milano 1920-25, traduzioni di Cesare Alessandri (III)
e G.A. Piovano; Jean-Christophe, Editori riuniti, Roma 1966, traduzione
di Gianna Carullo, prefazione di Carlo Bo.
[5] Trovandosi in
Svizzera al momento della dichiarazione della Prima guerra mondiale, decise di stabilirvisi
al fine di meglio promuovere le proprie idee pacifiste. I suoi numerosi
interventi sulla stampa del Paese neutrale vennero raccolti, in seguito, nei
volumi Au-dessus de la mêlée, Librairie Paul Ollendorf, Paris 1915 (Come
in forza d’una strana nemesi delle Muse contemporanee al gran massacro
taylorista, l’editore che curò la pubblicazione rollandiana fu il medesimo che
un paio d’anni prima aveva rifiutato il manoscritto dei primi volumi della Recherche
di Marcel Proust, con la sbrigativa motivazione: «Sarò ottuso, ma non posso
comprendere come un signore possa impiegare trenta pagine per descrivere come
si giri e rigiri nel letto prima di trovare il sonno») e Les
Précurseurs, Éditions de «L’Humanité», Paris 1919. Nel novembre
del 1916, l’Accademia svedese gli conferì il Premio Nobel per la Letteratura
del 1915, «come un omaggio all’idealismo della sua produzione letteraria e alla
simpatia e all’amore della verità con la quale ha descritto i differenti tipi
dell’essere umano».
[6] Romain Rolland, Mahatma Gandhi, Librairie Stock,
Paris 1926. A
conferma di un’indole antesignana delle successive tendenze dei Cultural
studies, egli non fu permeabile soltanto alle teorie del Satyagraha elaborate
dalla Grande anima di Porbandar, si interessò altresì, per far solo un esempio,
alla lotta del popolo nicaraguense contro l’occupazione degli Stati Uniti ed
entrò in corrispondenza con l’eroe nazionale Augusto Sandino (Niquinohomo, 18
maggio 1895 - Managua, 21 febbraio 1934). Quanto lucida e precoce fosse in lui la
critica di quella cultura che, tutt’oggi, vanta pretese egemoniche e globalizzatrici,
lo testimonia anche un articolo apparso sul numero del marzo-aprile 1918 della
«Revue politique internationale» di Losanna e poi confluito nella silloge Les
Précurseurs, nel quale, esprimendo la convinzione che un’autentica cultura
di pace si possa affermare soltanto con il sussidio della pedagogia e tramite
l’istruzione di specifici programmi di studio fin dall’educazione primaria,
egli osservava «che bisogna essere liberi dinanzi a ciò che si ammira e non lo
si è restati dinanzi al pensiero classico – ché la forma dello spirito
greco-latino, la quale ci rimane attaccata al corpo, non risponde più ai
problemi moderni – ché essa impone agli uomini che l’hanno subita, fin
dall’infanzia, dei pregiudizi opprimenti, di cui, nella maggior parte dei casi,
non si disfanno mai e che pesano crudelmente sulla società odierna».
[7] Nel 1934, Romain
sposò, in seconde nozze, Marija Kudaševa (Mosca, 21 maggio 1895 - Clamecy, 27 aprile
1985), cittadina russa di madre elvetica. L’unione suscitò cospicue polemiche,
giacché esponenti di rilievo dell’anticomunismo francese, quali Georges Duhamel
(Parigi, 30 giugno 1884 - Valmondois, 13 aprile 1966) o Henri Guilbeaux (Verviers,
5 novembre 1884 - Parigi, 15 giugno 1938), subodorarono le trame delle autorità
sovietiche per affiancare allo scrittore di fama internazionale una donna in
grado d’influenzarlo. In effetti, l’avvicinamento di Romain alla Terza
internazionale datava almeno dal 1932, allorché fu tra i promotori, a fianco di
Henri Barbusse (Asnières-sur-Seine, 17 maggio 1873 - Mosca, 30 agosto 1935),
del cosiddetto “movimento Amsterdam-Pleyel”, articolatosi, per protestare
contro la guerra imperialista sotto l’egida del Partito comunista e della Terza
internazionale, in due congressi, il primo tenutosi ad Amsterdam, nell’agosto
del 1932, e il secondo alla Sala Pleyel di Parigi, nel giugno del 1933. Nel
1935, per giunta, assieme alla questionata consorte e su invito del collega
Maksim Gorkij, si recò in visita a Mosca, dove fu ricevuto da Stalin in
persona.
[8] Erano trascorsi
appena cinque mesi dal celebre J’accuse di Émile Zola, quando il dramma Les
loups di Romain Rolland venne rappresentato al Nouveau-Théâtre, per la
regia di Lugné-Poe, nome d'arte di Aurélien Marie Lugné (Parigi, 27 dicembre
1869 - Villeneuve-lès-Avignon, 19 giugno 1940), impresario alla cui arditezza
il pubblico della capitale era debitore delle messe in scena di autori tra i
più validi e controversi, quali André Gide, Henrik Ibsen, George Bernard Shaw,
Gerhart Hauptmann, August Strindberg e, persino, l’eversivo Alfred Jarry. Nell’opera
d’esordio, il nivernese aveva trasposto le vicende del famoso Affaire Dreyfus
al tempo del Terrore, nel 1793, scelta che non mancò di attizzare le già
incandescenti polemiche. Seguirono Le Triomphe de la raison (1899), Danton
(1899) e Le Quatorze Juillet (1902), i quali dovevano costituire, nelle
intenzioni dell’autore, le parti d’un ciclo che lui stesso denominò “Théâtre de
la Révolution”, inteso ad illustrare al pubblico contemporaneo l’attualità del
messaggio storico della Rivoluzione. Da lì a breve, le sue teorie
drammaturgiche erano state inoltre precisate in un testo teorico: Le Théâtre
du Peuple, Cahiers de la Quinzaine, Paris 1903.
[9] Stefan Zweig (Vienna,
28 novembre 1881 - Petrópolis, 22 febbraio 1942), quindici anni più giovane
dello scrittore francese, lo tenne in stima di maestro fin dalle prime visite
in boulevard du Montparnasse, nel febbraio del 1911. La corrispondenza tra i
due si era intensificata nei disagevoli anni della guerra, al termine della
quale il viennese dette alle stampe la biografia del blasonato amico,
contenente l’iperbolico encomio suaccennato: Romain Rolland. Der Mann und
das Werk, Rütten & Loening, Frankfurt 1921.
[10] La pièce,
stampata nell’undicesimo volume dei «Cahiers de la Quinzaine», il 18 marzo 1902,
era stata presentata sulle scene, tre giorni dopo, al Théâtre de la
Renaissance, con la regia di Firmin Gémier (Aubervilliers, 1869 - Parigi, 1933).
Trentaquattro anni dopo, il dramma popolare fu allestito, il 14 luglio 1936, al
Théâtre de l'Alhambra, registi Jacques Chabannes (Bordeaux, 13 ottobre 1900 - Issy-les-Moulineaux,
16 giugno 1994) e Sylvain Itkine (Paris, 8 dicembre 1908 - Saint-Genis-Laval, 20
agosto 1944).
[11] Ebbe la prima
sede al numero 22 di rue de Navarin, condivisa con quella della Association des
écrivains et artistes révolutionnaires (AEAR), creata in Francia nel marzo
1932, come sezione della Meždunarodnogo ob″edinenija revoljucionn′ich pisatelej
(Unione internazionale degli scrittori rivoluzionari), fondata a Mosca nel
novembre 1927.
[12] Union des
théâtres indépendants de France, denominazione assunta, dopo la costituzione
del Fronte popolare, dalla Fédération du théâtre ouvrier de France (FTOF), sorta
nel gennaio 1931 con lo scopo di servire le organizzazioni rivoluzionarie, nello
specifico il PC-SFIC e la CGTU (Confédération générale du travail unitaire).
[13] Dal sito della
Association Romain Rolland http://www.associationromainrolland.org/image_lieux/page15.pdf
[14] Romain Rolland, Théâtre
de la Révolution, Hachette, Paris 1909. Il testo tradotto fa parte dei
commentari inclusi nel volume assieme ai tre drammi Le Quatorze juillet.
Danton e Les loups.
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