venerdì 11 marzo 2011

Sovranità e rivoluzione

articolo pubblicato sulla rivista
Arcipelago (n.54, marzo-aprile 2011)


Sovranità e rivoluzione


 Dal 1943 al 1947 – negli anni, tempestosi e tragici, durante i quali la nazione si scrollò di dosso l’ombra e gli artigli del regime fascista, il cui spettro non lesinò in seguito di incupire le già di per sé oscure, inibite al sogno non meno che alla fantasia, vicende dell’oramai adulta Repubblica italiana – i governi* che precariamente si succedettero nel calloso compito di dare forma e sostanza istituzionali allo Stato mentre gli eserciti degli schieramenti sovietico e anglo-americano venivano a contatto inghiottendo il mostro nazista, tali governi dovettero trattare la cessione di non esigue e rilevanti porzioni del sacro suolo della patria. Del Regno d’Italia, che, con buona pace di tutti i cittadini cui, del resto, ancora oggi auguriamo sia infine garantita reale e libera sovranità, riposa – e auspichiamo per sempre – sotto la lapide marmorea della storia, si celebra il prossimo 17 marzo il centocinquantenario dalla proclamazione.


Unità e molteplicità della nazione

 A quel primo e del resto limitato conseguimento unitario, giacché la liberazione delle Venezie dal dominio asburgico e quella di Roma dal potere temporale pontificio avverranno con qualche anno di significativo ritardo, si giunse sul finire dell’inverno del 1861, presso la sala dell’assemblea del primo parlamento nazionale, convocata a Torino e preceduta dalla serie di plebisciti con cui i vari resti lungo la penisola di un potere aristocratico più oscurantista che illuminato erano andati ad annettersi alla monarchia sabauda. Le laceranti questioni dell’unificazione linguistica, economica, sociale, rimandavano la propria soluzione ad un futuro che, in parte consistente, ha ancora oggi da compiersi. Nell’Italia risorgimentale le fazioni politiche progressiste, quali la mazziniana, frutto ed espressione di settori di una borghesia nazionale in pubertà, escludevano recisamente di affrontare i problemi sociali quali necessari presupposti all’ottenimento dell’unificazione politica; le componenti liberali, maggioritarie all’interno della borghesia, propendevano d’altro canto all’alleanza di interessi con la nobiltà agraria. Da una parte l’abile gioco diplomatico di Cavour, che valse l’appoggio alla causa italiana prestato da Napoleone III, e dall’altra l’impresa di Garibaldi concretizzarono le ambizioni e le scelte delle due tendenze antagoniste e guadagnarono al regale cranio di Vittorio Emanuele di Savoia la corona di Re d’Italia. Agli albori della propria storia, dunque, la classe politica che avrebbe poi retto le sorti della nazione attraverso ben note e tristi vicissitudini si fregiò di catastrofiche tardività e avventatezze. Delle contraddizioni sociali, che pure erano deflagrate nelle rivoluzioni europee del 1848 e che si riaccesero impetuose con la Comune di Parigi del 1871, nei cui torbidi fu travolto, secondo uno dei non infrequenti sarcasmi della nemesi storica, proprio quel Luigi Napoleone che era stato il magnanimo e cauto tutore dell’indipendenza italiana, della loro portata epocale la consapevolezza si impresse solo in forme tenui e sbiadite negli intelletti illustri dei padri della patria e della sorgente classe politica nazionale. Non mancarono certo eccezioni, le quali tuttavia furono emarginate in ragione della prudenza dei tempi e delle indoli, in conformità a una consuetudine che nel prosieguo della storia politica italiana permise, tra numerose e non poco determinanti transigenze, che, una volta instaurata la dittatura fascista, la cultura di opposizione a lungo non avesse armi per controbatterla al di là di un esule oltranzismo e di un remissivo Aventino**. Tale classe politica neppure durante la pur propizia stagione della Resistenza poté emendare del tutto le origini elitiste e congiuratorie che tanto pernicioso effetto ebbero nel favorire l’attecchimento della mendace ideologia fascista presso larghi e trasversali strati della popolazione. Fino ai nostri giorni lo sporco gioco della politica di potenza degli Stati imperialisti ha, quindi, continuato a trovare i propri adulti e professionali agenti tra gli eredi di Cavour e di Mazzini, non meno che tra i fedeli osservanti del cristianesimo democratico o tra gli integerrimi seguaci del socialismo di Stato.


Per un’economia generale e umanista

 In una serie di saggi***, che elaborò dalla metà degli anni ’30 alla metà dei ’50, il filosofo Georges Bataille propose di riformare i fondamenti dell’economia classica, legati all’impiego utilitario delle risorse produttive, alla luce di quella che definì notion de dépense, il concetto di dispendio improduttivo. Lungo un erudito e sapiente excursus antropologico, pensato quale ripresa a rovescio della fenomenologia dello spirito hegeliana, egli individuò le origini della sovranità nei doni suntuari (potlàc) che i monarchi delle primitive organizzazioni statali offrivano ai sudditi, nell’occasione di feste di ordine religioso e celebrativo, quali manifestazioni di regale magnificenza, ad immagine dell’irradiazione solare che offre alimento sovrabbondante alla crescita della vita sul pianeta. Nel soggetto regale, portatore della sovranità, il suddito proiettava, alienata, la propria. Se la civiltà borghese, rispecchiata nell’ideologia dell’illuminismo e nelle teorie dell’economia classica, iniziò una parziale emancipazione dalla sovranità arcaica, il marxismo e i movimenti di liberazione proletaria, a partire dalla metà del diciannovesimo secolo, operarono un passo decisivo nel ridurre la soggettività umana all’opera utile e alla produzione dei mezzi di produzione; il dispendio riaffiora comunque, fino al presente, nei fasti del consumo e del prestigio individuale, sebbene ogni giorno più mortificanti, nella guerra, nonché nella rivoluzione, alla quale non potranno mancare, oggi meno che in passato, quegli elementi di festa e di sovrabbondanza che riposano alle sue origini.


Desideri e realizzazioni

 La più desiderabile celebrazione del centocinquantenario del Regno d’Italia verrebbe a chi vive oggi nella Repubblica che da esso si emancipò, con tanto lutto e cordoglio, circa sessanta anni fa, verrebbe nel completare tale opera di emancipazione, la quale non potrà essere che soggettiva e collettiva, portatrice di una parte di gioia e di sovrabbondanza che sia determinante e umana.
Giancarlo Micheli

*    Pietro Badoglio (25 Luglio 1943-8 Giugno 1944); Ivanoe Bonomi (18 Giugno 1944-19 Giugno 1945); Ferruccio Parri (21 Giugno 1945-8 Dicembre 1945); Alcide de Gasperi (10 Dicembre 1945-17 Agosto 1953).
**  Fu dato questo nome alla secessione parlamentare (27 Giugno 1922) dei deputati di opposizione al governo Mussolini, deliberata come atto di protesta contro l’assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti ad opera delle milizie fasciste. Il nome scelto faceva riferimento alla lex Icilia de Aventino publicando (456 a.C.), la quale sancì che l’area del colle Aventino fosse distribuita alla plebe romana per la costruzione di case e sottratta alle mire dei patrizi, in merito alle quali ignoriamo se potessero essere, già in quel remoto passato, speculative.
*** La Part maudite : Essai d'economie generale,  Editions de Minuit 1949 (tr. it. La parte maledetta, Bollati Boringhieri 1992); L’Histoire de l’érotisme, Gallimard 1976 (tr. it. Storia dell’erotismo, Fazi 2006); La Souveraineté, Gallimard 1976 (tr. it. La sovranità, il Mulino 1990).

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