lunedì 16 aprile 2012

Per una teoria del romanzo nella fase suprema dell’imperialismo

articolo pubblicato sulla rivista Cultura e prospettive, supplemento de Il Convivio (anno XIII, n.1 - Gennaio-Marzo 2012)

Durante il secolo scorso – il ventesimo secondo una convenzione cronologica che è propria dell’uso comune non meno che del canone storiografico –, che un insigne storico quale Eric Hobsbawm definì “secolo breve”¹ per designare in una formula icastica l’accelerazione dei processi antropologici, assai vertiginosa e nient’affatto scevra di conseguenze nocive, dalla quale fu caratterizzato, durante questo secolo che riverbera i propri effetti sul nostro presente in misura considerevole e, per molti aspetti, determinante, si compirono trasformazioni sociali e cognitive tali da sconvolgere in profondità il senso che la specie umana fonda in se stessa e nella propria relazione con la natura che abita. Scoperte – o forse invenzioni linguistiche ad arguire sulla base di posteriori elaborazioni concettuali della psicologia dinamica – quali quella freudiana dell’inconscio, ovvero intuizioni matematiche quali quella espressa nella forma elegante e aporistica del teorema di Gödel², hanno agito sulle interpretazioni del mondo e sulla vita reale delle donne e degli uomini assai più in profondità di quanto il senso comune non sia disposto a concedere, non meno di quanto accadde nel corso dell’Umanesimo e del Rinascimento in corrispondenza alla scoperta delle leggi della prospettiva o all’esplorazione dei nuovi continenti.


Il romanzo senza romanzo e la società dei monopoli spettacolari

Non vi è dubbio che l’introduzione su vasta scala di macchine automatiche nella produzione dell’industria, avvenuta a partire dagli ultimi decenni del diciannovesimo secolo e massicciamente proseguita nel successivo, abbia avuto conseguenze antropologiche decisive, sebbene le si possa sperare non definitive. Il modello che guidò tale sviluppo fu quello americano del taylorismo, il quale vide gli albori nel tempo del crollo dei regimi politici dell’assolutismo e condusse ben presto gli Stati Uniti, dove esso allignò in coincidenza con lo spettacolare flusso migratorio che, dalle regioni povere dell’Europa meridionale e orientale, si riversò a soddisfare la domanda di manodopera non specializzata che l’apparato tecnico dei nascenti monopoli economici andava formulando in termini di anno in anno più imperativi e categorici, condusse gli Stati Uniti ad una rapida conquista della supremazia nel novero delle potenze imperialiste. È la tesi di alcuni storici autorevoli, come Karl Polanyi³, che il processo inauguratosi allora abbia portato alla dissoluzione dell’ordine liberale ottocentesco, fondato sui cardini ideologici del mercato autoregolato, del liberalismo politico e della base aurea del valore di scambio, fino a sostituirlo con l’attuale dominio del capitalismo finanziario, ben concreto spettro che, ancora oggi, fa aleggiare sul mondo l’autentica minaccia della propria eternità fittizia. Tale mutamento si compì, potremmo aggiungere, attraverso l’assimilazione di ciò che, nei primi decenni del ventesimo secolo, era apparso all’orizzonte della storia con i crismi dell’irriducibilità dialettica al discorso della civiltà capitalistica, vale a dire attraverso l’assimilazione di non pochi caratteri costitutivi dei regimi totalitari della società di massa: il socialismo di Stato sovietico, il nazionalsocialismo e i fascismi di vario genere e caso. Il prezzo che l’umanità ha dovuto pagare in questa transizione epocale è stato esoso quanto non può sfuggire a chiunque prenda in esame, sia pure in modo superficiale e senza particolari coinvolgimenti emotivi, i conflitti mondiali nelle cui tragiche vicissitudini lo sterminio è stato applicato su scala industriale. Se soltanto lungo una digressione tanto ampia, che ad alcuni sarà potuta apparire persino peregrina, ci è stato possibile avvicinare il nucleo delle riflessioni che intendiamo sviluppare attorno ad alcuni concetti della teoria del romanzo, sarà stato per non tenersi discosti dall’orbita intellettuale di un pensiero che ha gettato molta luce su tali argomenti, quello di Michail Bachtin, il quale scrisse nel saggio Il problema della creazione letteraria: “Il concetto di estetico non può essere derivato per via intuitiva o empirica dall’opera d’arte: esso allora sarà ingenuo, soggettivo e instabile; per autodefinirsi in modo sicuro e preciso esso deve definirsi relativamente alle altre sfere nell’unità della cultura umana”. È chiaro come l’esigenza di sistematicità che si rivela nell’opera di Bachtin affondi le proprie radici nella filosofia dialettica hegeliana, dalla quale egli trasse la linfa necessaria a farne germogliare una formulazione scientifica della tipologia strutturale del discorso proprio al genere narrativo del romanzo, che egli ebbe cura di verificare negli studi monografici dedicati a Rabelais e Dostoevskij. Dopo averne individuate le categorie fondamentali della pluridiscorsività e della plurivocità, ad esso peculiari, egli approdò ad una definizione tanto sintetica quanto rivelatrice, secondo la quale il discorso proprio a tale genere letterario consisterebbe nel “discorso dell’altro nella lingua altrui”. Una disciplina che prese origine dalle evoluzioni della linguistica e della filosofia del linguaggio novecentesche, vale a dire la semiologia, ha contribuito a produrre significative conferme alle tesi del pensatore di Orël. La “scuola di Tartu”, radunata attorno alle personalità carismatiche di Jurij Lotman e Boris Uspenskij, elaborò una concezione dinamica dello sviluppo delle culture sulla base della eterogeneità interna di ciascuna e delle relazioni inclusive che ciascuna pone in essere nei confronti di quelle contigue. Un esempio cui i semiologi di Tartu ricorsero spesso, allo scopo di suffragare le proprie teorie, riguarda la denominazione che al tempo della Russia medioevale era riservata alle popolazioni stanziate ai confini del Principato di Kiev, le quali, gradualmente, abbandonavano la vita nomade per assimilarsi agli usi e alle consuetudini autoctone: naŝi pojanii, cioè “i nostri pagani”, “i nostri estranei”. Nel rispecchiamento dei fenomeni sociali e politici che favoriscono il contatto e la mescolanza delle culture ogni particolare lingua letteraria forgia i propri specifici strumenti evolutivi secondo i criteri della similarità (linea metaforica) e della contiguità (linea metonimica), tanto da lasciar riconoscere una connaturale ed uniforme tendenza a strutturarsi in analogia con i flussi migratori delle popolazioni e delle conoscenze.


Il sistema nervoso dell’imperialismo e i riflessi della storia culturale italiana

Nella storia della cultura italiana è ben nota la rilevanza assunta in lunghi secoli dalla questione della nascita di una lingua nazionale, a partire dal principio del Trecento e dal primo Umanesimo, con l’affermarsi delle lingue volgari sulla κοινή aristocratica della latina, e fino all’Ottocento, all’epoca del compimento dell’unità politica, attraverso lo sforzo di elaborazione teorica e creativa che impegnò le personalità intellettuali più autorevoli, da Alessandro Manzoni a Francesco De Sanctis. Nei Quaderni dal carcere, che redasse dal 1929 al 1935, Antonio Gramsci lamentò l’assenza di un carattere nazionale-popolare della lingua letteraria italiana e castigò la maggior parte degli scrittori del suo tempo conferendo loro il titolo, tanto sprezzante quanto ben giustificato, di “nipotini di Padre Bresciani”. Al contempo, egli notò che negli strati borghesi della società, dove si contava allora la larga maggioranza dei lettori nonché la base morale e politica del regime fascista, le letture più in voga erano quelle dei romanzi d’appendice, inglesi e soprattutto francesi, disponibili in traduzione e pubblicati in edizioni economiche relativamente ben distribuite. Commentando una Lettera a Piero Parini sugli scrittori sedentari di Ugo Ojetti, apparsa sulla rivista Pegaso del Settembre 1930, Gramsci scrisse: “In Italia è sempre esistita una notevole massa di pubblicazioni sull’emigrazione, come fenomeno economico-sociale. Non corrisponde una letteratura artistica: ma ogni emigrante racchiude in sé un dramma, già prima di partire dall’Italia. Che i letterati non si preoccupino dell’emigrato all’estero dovrebbe far meno meraviglia del fatto che non si occupino di lui prima che emigri, delle condizioni che lo costringono a emigrare ecc.; che non si occupino cioè delle lacrime e del sangue che in Italia, prima che all’estero ha voluto dire l’emigrazione in massa. D’altronde occorre dire che se è scarsa (e per lo più retorica) la letteratura sugli italiani all’estero, è scarsa anche la letteratura sui paesi stranieri. Perché fosse possibile, come scrive l’Ojetti, rappresentare il contrasto tra italiani immigrati e le popolazioni dei paesi d’immigrazione, occorrerebbe conoscere e questi paesi e… gli italiani.”
L’odierno apparato delle patrie lettere e la sua concreta funzione di agente nel più vasto ambito della cultura nazionale offre, all’analisi, elementi di chiara analogia con quanto Gramsci descrisse in relazione al proprio tempo, senza lesinare strali e sarcasmo. In merito alla capacità di rappresentare, nell’indipendenza estetica che deve esserle propria, le contraddizioni reali della società e della vita, sembra essersi accresciuto il deficit della produzione letteraria nazionale rispetto a quella europea e americana ma, soprattutto, rispetto a quella dei paesi cosiddetti emergenti. L’ottimo giornalismo di denuncia di Roberto Saviano, ad esempio, se ha consentito all’autore di Gomorra l’agevole, e forse meritato, accesso ad una posizione di rendita tra i simulacri nazional-popolari della locale società dello spettacolo, manca tuttavia ad almeno due funzioni imprescindibili e connaturali ad un’arte letteraria che risponda alle istanze, etiche ed estetiche, poste dalla situazione cui essa aggiunge il proprio discorso: quella di esprimere, nel loro senso storico, i temi di cui tratta (l’apporto conoscitivo dell’opera di Saviano ad una più profonda comprensione della questione meridionale o a quella dei rapporti strutturali tra violenza di Stato e violenza criminale, appare, in definitiva, ben più mediocre di quanto non sia stata sopravvalutata) e l’invenzione di una lingua letteraria propria e personale, che tragga alimento dai linguaggi e dai codici della realtà viva che raffigura affinché ne riescano demistificati nella chiarezza e distinzione peculiari all’arte.
Nell’epoca del regime globale dell’economia finanziaria, i meccanismi di regolazione e distribuzione della violenza necessaria a conservare in equilibrio la riproduzione del capitale e quella della specie agiscono, ovunque, secondo criteri omogenei, applicati con appena lievi adattamenti sotto tutte le bandiere e tutte le latitudini. Come la lingua nell’uso concreto, così anche la lingua letteraria risente di tale deleteria involuzione, cosicché essa tende a discostarsi sempre meno dal grado zero di una complice neutralità, dove si trovi ridotta ad una mera funzione commerciale, all’intrattenimento della torpida e indolente coscienza contemporanea, lontana dalla specie quanto il capitale dista dalle esigenze e dai bisogni reali delle donne e degli uomini che asservisce.
In un suo saggio del 1973 Lucien Goldmann indicava nel “romanzo senza romanzo” la “struttura romanzesca omologa al capitalismo dei monopoli”. Nel solco dove il critico marxista poneva il dito della propria analisi si potevano contare, già allora, esempi di una copiosa tradizione sperimentale, dal romanzo modernista di Joyce o dadaista di Roussel, ai “non romanzi” surrealisti di Breton e Aragon, al Nouveau Roman di Queneau, Robbe-Grillet o Marguerite Duras. Con classico e canonico ritardo la ricerca letteraria italiana tentò di accodarsi a tali direttrici non prima degli anni sessanta, risentendo in ciò di una duplice serie di effetti negativi: quella inerente al tardivo ed imperfetto conseguimento dell’unità politico-culturale e quella relativa al conformismo morale, imposto dapprima dall’atavica egemonia cattolico-clericale e poi, attraverso la violenza intimidatoria e la censura, nel corso del ventennio fascista.
Assecondando la sua vena caustica e viscerale non meno che lucida e illuminante, Pier Paolo Pasolini scriveva nel saggio La fine dell’avanguardia¹⁰: “Ripeto: la caduta della nozione di impegno, come nozione-civetta, ha trascinato con sé, nella caduta, la problematicità tout court, la contestazione, l'individuo, che protesta, l'anormale, il Diverso ecc. Ma qual è stato l'effetto di questo odioso bisogno di stabilità e livellamento delle borghesie, di questa oscena salute del neocapitalismo? Il più incredibile e il più naturale. Una reviviscenza, diffusa, violenta, scandalosa e popolare, fino ad arrivare ad essere di moda, della problematicità pura e semplice, della contestazione, dell'individuo che protesta, dell'anormale, del Diverso ecc.! Che sono giunti - nell'accanimento del difendersi e del disperarsi - a una sorta di aggressivo esibizionismo; disancorandosi e distinguendosi dalla protesta razionale del marxismo; o addirittura ignorandolo, come avviene soprattutto in America. Di fronte a questo revival anarchico non violento, ogni altra forma di contestazione alla società - e nella fattispecie alle sue élites letterarie - sembra soltanto letteraria. In confronto mettiamo a Ginsberg, tutti i contestatari linguistici appaiono degli abatini – come un giornalista imitatore di Contini, chiama i giocatori di calcio graziosi e accademici. Tutta l'avanguardia italiana, per esempio (a parte certi arrivisti, volgari e quasi fìsicamente ripugnanti) è composta di tali abatini. Se dovessi definirli, direi che sono uomini che ripetono, e vogliono ripetere, con puntiglio quasi femmineo e provocatorio, le caratteristiche paterne… Ma ciò è da loro pacificamente ammesso (con altre parole, s'intende!). Poiché tutto è cominciato da parte loro, con un colpo di scena: cioè con la dichiarazione della propria dissociazione tra il fare linguistico e l'essere nella vita. Il fare linguistico consisteva in una pura e semplice battaglia linguistica contro la borghesia così com’è, allo stesso modo per esempio, che un missino – per un esibizionismo che coincide con la scandalosa scelta del conformismo – accetta l'Autorità”. Non è difficile rinvenire un’analogia tra questo passo dai toni parenetici e quanto Gramsci scriveva dal carcere per esecrare la patria avanguardia storica par excellence, le cui connivenze con il regime non ammontarono a poca ignominia: “I futuristi. Un gruppo di scolaretti che sono scappati da un collegio di gesuiti, hanno fatto un po' di baccano nel bosco vicino e sono stati ricondotti sotto la ferula dalla guardia campestre”.
 
 
La ricomposizione dell’oggetto estetico
 
Il valore della critica che in Italia si espresse in pagine particolarmente lucide e appassionate come quelle di Gramsci o Pasolini risiede più che nell’adesione militante ai temi della realtà viva da cui la rappresentazione letteraria trae motivo ed alimento, più che in una fiducia del tutto laica nei possibili effetti pragmatici del lavoro di scrittura, risiede piuttosto nell’equanime enfasi posta sugli elementi etico e conoscitivo dell’architettonica narrativa, i quali, sebbene eterogenei all’elaborazione propriamente estetica, costituiscono di essa il contenuto, lo sfondo dinanzi al quale la composizione artistica fa emergere la necessità del proprio senso e risveglia la bellezza dal sonno inerte dei meri materiali linguistici.
Se già Dostoevskij, all’interno di un corpo narratologico ancora “figurativo”, esplorò i bassifondi e le latebre della residua anima umana e del mondo ben prima della vigilia delle carneficine meccanizzate dalle cui tragiche deflagrazioni la storia della letteratura occidentale proseguì e perseverò fino alle sofferte conquiste della soggettività esplosa e dei suoi contesti in frantumi e macerie – attraverso i capolavori di Joyce o Williams, Bulgakov o Crevel, Yourcenar o Canetti, Bataille o Klossowski –, affinché la forma del romanzo possa rispecchiare la monodimensionalità delle strutture antropologiche e sociali lungo i cui segmenti l’individuo contemporaneo patisce la quotidiana dimostrazione della propria impossibilità concreta, è necessario, oggi come sempre, l’emergere del genio creativo che, al di là delle lenti ideologiche dietro il cui vitreo schermo la società dello spettacolo vede se stessa e addestra la miopia degli sguardi e delle prospettive, ricomponga l’immagine sensibile dove si prefiguri l’umanità affrancata dai vincoli economici oppressivi e dal feticismo delle merci, dove si lasci presagire la libera circolazione del sogno nella realtà.
Con la sua opera monumentale Il principio speranza, il filosofo Ernst Bloch tracciò alcune linee direttrici indispensabili affinché il movimento alla volta dell’arte letteraria che i cicli della storia richiedono sia verificato attraverso i suoi conseguimenti parziali e necessari: “Poiché nel mondo borghese la situazione va sempre peggio, anche qui il sogno non scompare. Ma conserva una certa fre-schezza solo se si annuncia in un gruppo e per il suo futuro. Quando invece il domani che si dipinge è un quadro globale, sul piano tardo-borghese diviene per lo più menzogna, nel caso migliore un gioco o una romanticheria. Questi ultimi due generi debbono comunque essere affrontati, poiché hanno quanto meno mantenuto a galla l'inclinazione all'utopia”¹¹. Nell’attuale società globalizzata, che apologizza la perdita dell’aura che la propria infingarda smemoratezza ha confinato tra i cimeli dell’archeologia dello spirito, nell’attuale atmosfera adattata alle respirazioni artificiali e ai rantoli del fantasma del capitale finanziario e i cui asettici cataboliti si depositano, in pegno alla vita, sui contraltari del feticismo e della reificazione, è saggio riporre grandi speranze nell’arte della scrittura, in primis nella forma del romanzo, giacché essa, per sua interiore essenza, unisce e distingue forma e contenuto. Scriveva Michail Bachtin, a conclusione del suo saggio Il problema della creazione letteraria: “Dopo tutto quello che abbiamo già detto, deve essere chiaro che l'oggetto estetico non è una cosa, poiché la sua forma (più esattamente, la forma del contenuto, dato che l'oggetto estetico è un contenuto organizzato formalmente), nella quale io sento me stesso come soggetto attivo e nella quale io entro come suo necessario momento costitutivo, non può essere, naturalmente, forma di una cosa, di un oggetto”. Soltanto una soggettività creatrice coltivata con amore e coscienza, radicata nel proprio senso storico, saprà rispecchiarsi in una letteratura che sia all’altezza delle emergenze e delle contraddizioni del presente, saprà essere guida, lungo la persistente via della bellezza, verso l’umanità finalmente libera da passioni nocive e velenose, verso un mondo infine abitabile, fino al “qua e ora” dove il volto umano si riconosce, riflesso nella pupilla dell’altro, distinto ed identico a sé.
Giancarlo Micheli

[1] Eric Hobsbawm, Il secolo breve (Rizzoli, Milano 1995).
[2] Il matematico Kurt Gödel (1906-1978) dimostrò, nel celebre teorema che da lui prese nome, che ogni sistema formale, strutturato cioè in una serie di assiomi e in un sistema di regole d’inferenza, non può essere allo stesso tempo coerente e completo: se il sistema è coerente, vale a dire non produce proposizioni contraddittorie, ci saranno proposizioni vere che il sistema non può dedurre; se, al contrario, il sistema è completo, vale a dire può produrre, con l’applicazione delle sue regole d’inferenza ai suoi assiomi, tutte le proposizioni vere, esso conterrà, necessariamente, proposizioni tra di loro contraddittorie.
[3] Karl Polanyi, The Great transformation (Holt Rinehart & Winston Inc., New York 1944); ed. it. La grande trasformazione (Einaudi, Torino 1974).
[4] Michail Bachtin, Estetica e romanzo (Einaudi, Torino 1979).
[5] Michail Bachtin, L’autore e l’eroe. Teoria letteraria e scienze umane (Einaudi, Torino 1988).
[6] Jurij Lotman, Tesi per una semiotica delle culture (Meltemi, Roma 2006).
[7] Antonio Gramsci, Letteratura e vita nazionale (Editori Riuniti, Roma 1987).
[8] Antonio Bresciani (1798-1862), gesuita e critico letterario, si fece autore e promotore della retorica cattolica e antipatriottica.
[9] Lucien Goldmann, Pour une sociologie du roman (Gallimard, Paris 1973).
[10] Pier Paolo Pasolini, Empirismo eretico (Garzanti, Milano 1972).
[11] Ernst Bloch, Das Prinzip Hoffnung (Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1959); ed. It. Il principio speranza (Garzanti, Milano 1994).

3 commenti:

  1. Ingiusto, sbilanciato e non circostanziato il rilievo critico a Saviano. Capisco che possa disturbare "l'accesso ad una posizione di rendita tra i simulacri nazional-popolari della locale società dello spettacolo" (per via delle apparizioni TV? e va bene, ma sono lenitive per una vita da braccato). Ma grave, ed esposto nei modi critici di un "generico esigente" il rilievo di mancare del tutto, o di essere di mediocre consistenza, l"apporto conoscitivo" della questione meridionale... (E' poco aver messo una lente d'ingrandimento su fenomeni criminali caduti nel rituale e anestetizzato rullo dei notiziari?). E poi l'acuminato strale finale di non aver dato vita a una lingua letteraria propria e personale, come se fosse il "pensum" necessario a ogni approccio di comunicazione. A Zola ("Romanzo sperimentale") bastavano per individuare la potenza di un artista due elementi: 1) senso del reale; 2) espressione personale. Saviano li possiede ad abundatiam entrambi, e chi se ne importa se si accompagna a Fabio Fazio o se strologa su tutto... Personalmente non seguo gli artisti, questo sì vero vezzo della società dello spettacolo: mi limito SEMPRE alle opere. Busi ha scritto un capolavoro: "Seminario sulla gioventù". Mi basta. Dicono che abbia anche partecipato a trasmissione televisive di dubbio gusto. Non mi importa. Per il resto il pezzo trova il mio consenso. Ma attenzione nel criticare quelli a noi più "prossimi" e trascurare i veri e propri "grassatori" del pervertimento estetico di massa! Gramsci non l'ha fatto e non l'avrebbe mai fatto...

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  2. Caro Giancarlo, ho letto il tuo articolo "Per una teoria del romanzo nella fase suprema dell'imperialismo" e mi sono chiesto se l'asse gramsciano-pasoliniano, a suo modo rinforzato da Bachtin (o, al contrario, Bachtin inteso come "profilo" teorico-letterario di un'idea "forte" di letteratura), non lasci emergere prospettive di teoria del romanzo apparentabili anche a un'altra celebre dorsale, la francese composta da Sartre e De Beauvoir, in specie "Che cos'è la letteratura?" e ad esempio qualcosa come "I mandarini", solo per citare un bel romanzo.
    D'altra parte, tra il contenuto della forma (le avanguardie) e la forma del contenuto (Lukàcs, ecc.) tutto un mondo si apre e insieme si divide, da un lato - semplificando - gli scrittori o intellettuali della "torre d'avorio", dall'altro gli apocalittici.
    Qualche anno fa mi sono occupato della specifica relazione tra lo scrittore e il potere nell'Italia del Novecento (La sfida della letteratura, Roma, Carocci, 2004), a parte Gramsci, Vittorini, Pasolini, Fortini, Sciascia e qualche altro, tutto il resto (incluso Gadda) è risultato estraneo a un vero e proprio engagement ovvero l'idea di una storicità (non storicismo) della letteratura, o, ancora, un'idea e una prassi della letteratura come anamnesi dello Zeitgeist, se così si può dire. Ecco quattro parole intorno ad un argomento che mi sta a cuore da tempo perché se riflette senza dubbio un problema della letteratura è anche un problema, un idolo di chi fa letteratura.
    Neil Novello

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  3. Caro Neil, è proprio vero che in Italia più che altrove sono prevalse, tra gli intellettuali, correnti, o forse meglio ristagni, di tipo isolazionista. Durante gli anni del coprifuoco fascista, l'idea della "repubblica delle lettere", che in me suscita spontanea antipatia, permise nondimeno di salvaguardare da peggiori e turpi derive "selvaggiste". Da noi l'avanguardia par excellence è stata la futurista, al cui interventismo purtroppo si deve ascrivere il merito infame di aver tolto le castagne del fuoco al futuro dittatore italiano, quando l'uomo del destino, all'inizio del '19, correva il rischio di essere relegato ai margini dell'agone politico (discorso di Bissolati alla Scala e annesse gazzarre performative), ancor prima, dunque, della formazione dei Fasci di combattimento. Le propensioni all'aventinismo lasciarono strascichi anche nei brevi anni del secondo dopoguerra in cui, assieme all'unica fase espansiva del capitalismo (redistribuzione socialdemocratica dei profitti), venne di moda tra i letterati l'engagement; strascichi che presero corpo e fantasma nel conformismo di cui Pasolini fu la vittima predestinata. Hai ragione anche nel dire che questo argomento, quello che Breton già nel '35 esprimeva unendo le due massime di Marx e Rimbaud ("trasformare il mondo" e "cambiare la vita"), patisca la minaccia di essere idolatrato. Non facciamolo. Pertanto, conduciamo la lotta nel fuoco della sua concretezza, non accettiamo le condizioni disonoranti che vorrebbe imporci la tecnologia postnazista dell'industria culturale, della quale, a mio avviso, bisogna capire con urgenza se la seconda ondata italica di avanguardismo, quella degli anni sessanta, non abbia agito da servo sciocco e inconsapevole, ovvero da maligno e gnostico demiurgo. Quanto a me, se potessi, rifarei tutto nuovo; ma è chiaro che, senza compagni, non si può. Mi è dunque molto gradito il tuo commento.
    Giancarlo Micheli

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