lunedì 17 marzo 2014

Elegia provinciale (Fratini, Firenze 2013; pp. 293) di Giancarlo Micheli

recensione di Rodolfo Tommasi
al romanzo Elegia provinciale (Fratini, Firenze 2013) di Giancarlo Micheli
pubblicata in Il Convivio (n.55, Anno XIV n.4, ottobre-dicembre 2013)
 
Poiché tutti i miei studi hanno cercato di far procedere in parallelo musica e letteratura, mi sento in grado di definire Elegia provinciale di Giancarlo Micheli uno strano romanzo, avvertendo che a questo aggettivo attribuisco un valore molto particolare, il quale contempla e completa in sé anche ciò che si esprime di norma con i termini intrigante, affascinante, seduttivo. Si tratta in effetti di un’opera piena di aspetti riposti, che non possono non venire scoperti che attraverso molteplici riletture, fatto che mi dispone a ripropormi di tornare a prendere in esame il lavoro di Micheli in una trattazione più ampia di quella che consentano queste brevi note, soprattutto nell’intento di dimostrare come la sua poesia e la sua prosa siano perfettamente sposate da una situazione di scrittoio che è sempre progettuale fino a sfidare il tormento. Benché la figura di Puccini stia al centro della narrazione, con incredibile pudore l’autore non entra nel discorso musicale, giacché la musica rimane piuttosto una sorta di chimera o miraggio, la quale potrebbe forse essere proprio la chiave o il codice per penetrare meglio alle sorgenti della sua ispirazione creativa ma che nel testo si deposita appunto solamente in filigrana, per via di sporadiche citazioni dal libretto di Fanciulla del West, durante la cui composizione accadono le vicende dell’intreccio. Qua consiste uno degli elementi di fascino del romanzo, laddove la figura umana di Puccini viene posta in primo piano mentre quella del musicista, di molto maggiore rilevanza, assume contorni fantasmatici. Lo stesso fatto di cronaca da cui si trae spunto, la triste sorte della domestica Doria Manfredi, ingiustamente accusata dalla moglie del Maestro di aver avuto una tresca con questi, viene ad impregnare un ambiente così da dare adito al titolo: Elegia provinciale. Un titolo bellissimo, che descrive con icastica sinteticità il milieu del racconto; eppure, la struttura formale del romanzo non ha niente di elegiaco né tanto meno di provinciale. Tutto torna e, al tempo stesso, tutto può essere rimesso in discussione. Se questo romanzo fosse stato pubblicato alla metà del secolo scorso, quando la critica d’avanguardia insorse contro il Metello di Pratolini nel frangente di storia letteraria in cui i lettori italiani scoprivano Joyce e Proust, mentre nella collana mondadoriana della Medusa sarebbe stata da lì a poco pubblicata la prima traduzione della Montagna incantata di Thomas Mann ed al di là delle Alpi nasceva la Nouvelle Critique dal contesto in cui operavano scrittori come Queneau o Robbe-Grillet, mentre si attendeva di veder proiettati nel corso di una medesima stagione cinematografica film tra loro diversissimi quali L’anno scorso a Marienbad di Resnais e Accattone di Pasolini, se dunque Elegia provinciale fosse andato in stampa allora, allorché fu affermato che il romanzo dovesse avere quale unico protagonista la scrittura – e da qui, naturalmente, Sanguineti, Balestrini, lo stesso Eco, sebbene a quel tempo di romanzi non ne scrivesse ancora –, ebbene io credo che l’opera di Micheli, in quella congiuntura, avrebbe completamente scompigliato tutte le carte e tutti i vetri, giacché essa, nella sua conduzione, affonda tranquillamente le sue lunghe radici nella fabula e, nella sua forma, abbatte i muri del tempo, così come riescono a fare soltanto gli scrittori veri. Io ho trovato affascinante pensare a questo romanzo alla metà del Novecento e trovo affascinante pensarlo oggi. “Prima dell’unità di azione, tempo e luogo della nostra storia, in un remoto passato, tra argini che ripartivano una vasta laguna estesa dalla bocca d’Arno fino ai silvestri contrafforti delle Alpi Apuane, nella terra ove si ambienta la vicenda che narriamo avevano finito per mescolarsi i flussi germinativi dei Liguri-Apuani, della druidica radice celtica, dei Tusci, aruspici  e cheraunomanti venuti dal mare delle matrilineari genealogie lidie, e dei Latini, legislatori ed ebbri seguaci del plusvalore di codice impegnato nel concetto di stato e riscattato, con usurario profitto, nel genitale universalismo imperialista” dice, ad esempio, l’incipit del XII capitolo; ecco, io ritengo che se oggi ci fossero stati tra i letterati italiani Gadda e Manganelli, il romanzo di Micheli non si sarebbe salvato da effusioni trionfali. Non cito a caso questi due nomi, perché a mio avviso essi sono i due scrittori che costituiscono la sutura tra la tradizione narrativa novecentesca ed un terzo millennio che, salvo poche eccezioni, sta ancora chiedendosi dove debba andare. Micheli, invece, lo sa benissimo. Usa un sistema narrativo che è pieno di sorprese, ma anche di ritorni e leit-motifs, secondo una tecnica che amo definire di avvolgenza, quasi vi si potessero rinvenire principî percettivi di ordine tattile, come parrebbe corroborato dalla ricorrenza dei riferimenti meteorologico-atmosferici: “Il cielo del freddo pomeriggio di febbraio era battuto da alti venti, da ponente. Lo percorrevano candidi convogli di nubi vaporose, mutevoli viaggiatrici delle sue azzurre strade. Quell’incessante correre inebriava gli occhi e dava un senso di consolazione, suggeriva fantasie di durevoli eternità”; ovvero “trascorsero giorni di fitti piovaschi, interrotti da brevi schiarite che duravano finché il cielo era di uniforme campitura, come pietra di turchese, e solo un lontano bordo di nubi grigie la orlava verso ponente”; senza che in apparenza l’autore si accorga, o piuttosto accorgendosi egli benissimo, di aver scritto qualche capitolo prima: “trascorsero algide giornate di novembre, lacrimanti pioggia sui tetti dagli embrici sconnessi della capitale lombarda, deserti tetti, sopra i quali solo sparute coppie di piccioni si inseguivano in un frullare di umidore”. In altre pagine, poi, tali condizioni del cielo vengono tradotte in lancinante situazione umana, come ad esempio nella descrizione del momento in cui Doria Manfredi si avvelenerà: “La frenesia dei suoi gesti si trasformava nell’ottenebrata percezione di lei in uno spossante agitarsi dentro un liquido viscoso che resisteva ad ognuno, penosamente. Infine, stremata, raccolse un barattolo di vetro sul quale era stata incollata un’etichetta di carta”. Tutto ciò che era scena, visione, si è all’improvviso trasformato in sensorialità. L’interno si converte alla perfezione con l’esterno, e viceversa; in questo senso, il titolo aderisce pienamente al contenuto del libro; la scrittura, però, sempre sale, cerca ed emana, fino a domandare al lettore una complicità che verrebbe quasi da dire utopistica, considerato che ormai da tempo il grado medio di acculturazione del lettore italiano tende al ribasso. E così, come nel film La famiglia di Ettore Scola si è scelto il tema del corridoio per indicare la via di accesso alle stanze e alle singole esistenze dei personaggi, in Elegia provinciale l’autore seleziona quello della strada di fango, di un fango che è sempre presente,  tanto sotto a cieli tersi ed estivi quanto sotto a piogge battenti, finché si sia persino indotti a sospettare possa trattarsi di materia metaforica, a designazione del fatto che la scrittura è una realtà oltre la realtà, cosicché davvero essa, più di Doria, di Puccini, Elvira, Tonio, più del prete o del medico, diventa la autentica protagonista del romanzo.
Rodolfo Tommasi
 
 
 

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