domenica 19 aprile 2015

Rivoluzione e democrazia

elementi di guerriglia intellettuale in Gramsci e Gobetti durante il Biennio rosso ed oltre


articolo di Giancarlo Micheli pubblicato ne Il Ponte – rivista di economia e cultura fondata da Piero Calamandrei (Anno LXXI, n.3 marzo 2015)


[...] Così Gramsci, nelle cronache teatrali dell’Avanti! del 3 Ottobre 1917, dipingeva il pubblico borghese del teatro Alfieri, calcando il pennello sui tratti nefasti delle ideologie comunicative in cui esso veniva a debuttare nel ruolo di oggetto di un ben spregevole svezzamento:

Eppure questi spettatori non sono dei grezzi ammassi di carne e ossa fasciati di epidermide. Si commuovono, hanno la pos­sibilità di commuoversi. Negli intervalli, aggruppati nella breve saletta dei fumatori, ammutoliscono, impietriscono, si schiacciano contro le pareti per lasciar che un giovane passeggi, con gli occhiali neri, in divisa, barcollante al brac­cio di un amico, incerto delle relazioni di spazio, come lo è ancora chi è sprofondato nel buio da poco, con le pu­pille abbruciate da uno scoppio di gas esplodenti, da un soffio di gas velenosi. Un velo di malinconia impallidisce questi spettatori, essi possono sentire l'umanità, possono comprendere il dolore, possono atteggiare il volto alla se­rietà, possono sentirsi velare gli occhi di cupa tristezza. Ep­pure, quando il velario si apre, e le ridicole caricature di uomini e di donne del palcoscenico riprendono a mettere in azione la loro macchina, i volti si distendono alla gaiezza ebete, e l'atmosfera di bestialità si aggrava e appesantisce. Le scempiaggini si rincorrono, si ammucchiano in im­mondezzai colossali, traboccanti goffamente. La gagliofferia ha il sopravvento assoluto sulla intelligenza, dilaga negli applausi, si approfondisce in risatine di compiacimento: con­tinua a perseguitarci nei vapori putridi della sera, nelle nebbiosità dell'autunno che si avvicina.[1]

Non è tempo che si getti al vento quello impiegato ad una sia pur breve disamina delle recensioni teatrali gramsciane nel lasso che intercorse tra la firma dell’armistizio di Compiègne, ove fu sancita la virtuale sospensione del conflitto intercapitalistico, e l’inverno del 1920, quando il ghilarzese, dopo aver profuse energie per dare sostegno intellettuale all’esperimento di autorganizzazione operaia nelle fabbriche della Fiat, dovette constatarne il fallimento dinanzi alla coesa reazione padronale. Il tono generale di questo gruppo di testi si rivela essere non lontano dal sarcasmo né esente da cabrate sino alle quote dell’invettiva, sebbene si distacchi in maniera sempre sensibilissima dai canovacci classicheggianti delle deprecatio temporum che hanno costituita proficua catena nella storia della cultura patria, con il durevole effetto di lasciare il tempo che avessero, di volta in volta, trovato o, forse meglio, perduto. Nel dicembre del 1918, quando le ragioni dell’ordine trovavano docili esecutori persino nelle file della socialdemocrazia tedesca, Gramsci, nel dare notizia di una rappresentazione allestita al teatro Carignano, vergò una pagina assai illuminante sui nessi strategici tra psicologie e costumi sociali quali vengono indossati, tutt’oggi, sulla ribalta dell’incubo spettacolare messo all’incanto affinché ogni devoto consumatore possa sostituirlo, ad un prezzo che gli paia modico, alla propria esistenza di individuo nella specie, che il regime di circolazione forzata delle merci e dei simulacri gli rende impossibile e gli vieta. [...]

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[1] Contrasti, in “Avanti!”, 3 Ottobre 1917.





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