mercoledì 6 dicembre 2017

Un eroe del tempo non ancora nostro – epistolario gramsciano 1908-1926

un saggio di Giancarlo Micheli

pubblicato in “Rivista di Studi Italiani” (Anno XXXIV, n.3, dicembre 2016)

e nel volume Envoi Gramsci (Campanotto, Udine, 2017) a cura di Neil Novello


Scrivere dell’epistolario gramsciano adesca a ricomporre – tramite le vicende di vita che furono il materiale diegetico del vasto corpus soggiaciuto, nelle stratigrafie filologiche, a numerose collazioni ed a qualche espunzione – una più generale biografia della nazione, che ambisca a fondamenti narratologici di migliori coerenza e completezza rispetto a quelle nei cui termini Piero Gobetti consegnò, con pur euristica lucidità, una descrizione oramai classica del complesso storico del fascismo, il quale d’altronde ha perseverato a proiettare la propria ombra peculiare, con buona pace del vigente regime globale, sulla società italiana, ben oltre la caduta del Ventennio e fino ai giorni nostri.
Nel novembre del 1926 Gramsci venne arrestato e recluso, in isolamento assoluto, nel carcere di Regina Coeli, sotto l’accusa di tessere trame antipatriottiche in quanto membro della Terza Internazionale. Si era nell’anno in cui il regime mussoliniano compì una svolta decisa in senso repressivo, fatto che ha autorizzato alcuni analisti a suffragare l’interpretazione in base alla quale una prima fase del governo fascista non possedesse i caratteri tipici del totalitarismo, indice di una certa persistente recalcitranza a scrollarne le polveri autoritarie dalle circonvoluzioni cerebrali e dai vezzi della patria psicologia, segnale di un atteggiamento che, pur volendosi astenere da soverchia malizia critica, parrebbe quasi corroborare la tesi secondo cui un’aristotelica temperanza delle libertà democratiche non sia in fondo un male[1]. È in ogni epoca preferibile a chi detiene il potere aiutare il popolo bisognoso ad assolvere il proprio nocivo o inutile passaggio terreno, piuttosto che consentire che esso appronti gli strumenti attraverso i quali creare le figure immanenti della propria autocoscienza.
Negli anni in cui alcuni presentivano la crisi di Wall Street mentre altri ne procuravano i presupposti, gli atti della comunicazione, per mezzo dei quali la conoscenza, umanistica o scientifica, è assurta nel frattempo al ruolo di ancella della sovrana dialettica del dominio sulle risorse cognitive e naturali, avvenivano in qualche modo alla luce del sole, soprattutto se paragonati all’irretimento nelle nebbie narcotiche sprigionate delle ciminiere ideologiche del presente, emananti cortine pseudoplotiniane in molteplici livelli sovrapposti, simili agli epiteli di una cipolla, cosicché allo sfogliarli uno ad uno, secondo metodi induttivi o deduttivi, si producano gli effetti del pianto, e così adiabatici al calore dei sentimenti reali quanto le emozioni di un manager o di un advisor delle multinazionali sono separate da quelle di un bracciante delle monoculture intensive. Oggi, alle soglie del quarto lustro del millennio, le durezze fisiche della detenzione carceraria, assieme a tutta la mitizzazione di esse che ne è passata alle coscienze – si pensi in un eteroclito arco costituzionale che va da Sade a Blanqui, da Nievo a Pertini –, esprimono un arcaismo nel linguaggio del potere, tale da evocare regressioni, più comunemente ascritte alla temperie medioevale ma per le quali un’analisi dettagliata consentirebbe di rinvenire recrudescenze finanche atavistiche. La misura contemporanea della coercizione sta in una ben affinata e più efficace censura dei messaggi a livello connettivo, giacché il sistema di virtuale permutabilità assoluta dei valori semantici e semiologici annulla i luoghi del senso, assorbendo ogni scarto, cui l’esistenza si appiccichi a guisa di etichetta – taggare –, nella falsa narrativa o propaganda di regime. Il profilo sottotraccia, rispetto agli abusi emotivi che il “discorso del padrone” dispensa all’ecumene degli animales laborantes e dei sata insumentia, infarinati con spolveri di teologie messianiche o apocalittiche, sfornati al giusto grado di cottura per la consumazione in carneficine sufficienti a trarre esiziali plusprofitti nel corso della fase suprema della loro caduta tendenziale – i tassi d’interesse pagati dalla Federal Reserve sono prossimi allo zero sin dall’inizio dell’attuale crisi economica, epifenomeno di una più profonda, antropologica e biosistemica, a titolo di dichiarazione fallimentare del modo di produzione capitalistico, quale emerge persino spudoratamente nella fabula della grande impresa universalista di rimediare alle nocività e agli sconvolgimenti climatici, nuove colonne d’Ercole apparse all’orizzonte dell’oceano di lacrime, menzogne e cataboliti che viene svenduto alle future generazioni, sopra le quali vadano a crollare come su una nuova miriade di filistei affinché sia rivelata, alla fine dei tempi, l’identità del colpevole –, il basso profilo riservato all’intellettuale nella contemporanea e mediatica selva oscura consente che assai di rado si sia costretti a braccarlo tra pruni e sterpi con metodi primitivi, segregarlo o anche semplicemente farne una vittima da immolare al gusto artificioso degli appassionati di cronache giudiziarie. [...]

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[1] Scrive Ernesto Ragionieri in Storia d’Italia, Einaudi, Torino 1976 (IV, p. 2121-2): “Giustino Fortunato, che vide nel fascismo una “rivelazione” delle ataviche tare della società italiana, parlò nel giorno della marcia su Roma della ʻfine della borghesiaʼ. Ma fu proprio Benedetto Croce, ad ammonirlo, secondo la logica di un marxismo ad uso delle classi dominanti, che ʻla violenza è la levatrice della storiaʼ”. Cfr. Giorgio Amendola, La “continuità” dello Stato ed i limiti storici dell’antifascismo italiano, in “Critica marxista”, Quaderno n.7, Roma 1974.

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