domenica 5 maggio 2019

Per una poetica liberata

articolo di Giancarlo Micheli pubblicato su
 Il Grandevetro (trimestrale di immagini, politica e cultura)


La Storia, soprattutto a guardarla con occhi vigili e spalancati, quali se ne dischiudono, a guisa di prodigiosi fiori d’innocenza sotto l’erba delle ciglia d’ogni nuova generazione, è una decrepita e macilenta etera, gravida di crimini immani e manifesti, che ammicca sul ciglio delle strade maestre ai prosseneti di una personale sequela di complementari e reconditi. È comune fortuna che il fuoco dell’amore ancora divampi in quest’inferno. Manca ormai un ristretto giro d’orbite, le quali si conteranno sulle dita di due mani a patto che colgano intanto l’una dall’altra una carezza e un graffio, avanti sia trascorso un secolo da quello che i documenti della protratta infanzia capitalistica, fase suprema della preistoria dell’umanità, pongono in breccia alla cosiddetta Grande Depressione. In un solo giorno, il giovedì 29 ottobre del 1929, le cedole di credito che rappresentavano poc’anzi l’equivalente d’una virtuale opulenza e d’uno schizofrenico dispendio, non valsero la carta su cui erano stampate, destino entropico dell’economia pseudo-darwiniana d’una millenaria eredità necrofaga; ne seguirono tali prodigi, in miseria e nequizia, che non se ne uscì altrimenti che con il vile ricorso all’ecatombe della guerra mondiale. Tristemente facile l’analogia con le vicissitudini attuali, sicché se ne debba concludere che quell’apparente uscita indichi ancora adesso l’entrata ad un più profondo abisso. Era trascorso poco più di un mese da quell’epifania contabile del cannibalismo finanziario, che sarebbe andata depositando i propri fetidi crismi sulla vita al pari di quanto accade di nuovo, tant’è che i simulacri predittivi di cui fa appannaggio la scienza borghese vi rivelassero, già allora, l’intima natura di feticci atavici e sanguinolenti, era trascorso forse non invano quel ciclo lunare, quando dalla Librairie José Corti, in rue de Clichy, tra la Gare Saint Lazare e Pigalle, venne licenziato per la stampa quello che sarebbe stato l’ultimo numero de “La Révolution surréaliste”, il dodicesimo dell’intera serie, giunta in quel frangente, fatidico non meno di altri che lo precedettero e lo avrebbero seguito, al quinto anno. Sotto le impronte di sette coppie di labbra femminili che stanno a guisa d’aferesi concreta al Second manifeste du surréalisme, firmato da André Breton a pagina 17 (diciassette, come l’Arcano maggiore delle Stelle), invano l’odierno cultore della materia ricercherebbe un estratto dalla rivista “Annales Médico-psychologiques”, escusso, nella fattispecie, dal secondo tomo dell’ottantasettesima annata dell’organo dei gallici alienisti, il quale venne invece anteposto, in luogo d’epigrafe, all’edizione in volume destinata alle rotative da lì a breve, per i tipi delle Éditions Kra, trai quali fu già disponibile alla fine di marzo del 1930. Breton, alle spalle l’apprendistato clinico alla Salpetrière ed ormai navigato tra i flutti della contesa ideologica, scelse di riportare la petizione che l’insigne psichiatra Paul Abély aveva rivolto, tramite le prestigiose colonne dell’ippocratica testata, a chi di dovere, affinché fossero adottati i provvedimenti acconci a reprimere tutta una seria di aggressioni subite dai colleghi nell’esercizio delle loro funzioni terapeutiche per mano di coloro stessi cui le prodigavano. Il luminare si era spinto ad un atto tanto assertivo da profilarsi alla cognizione personale nei termini d’un civico ardimento in piena regola, laddove, addebitando la causa delle proditorie violenze alle istigazioni contenute in un testo che «circolava liberamente tra le mani di altri alienati», deplorava apertamente la rivista letteraria colpevole di averlo pubblicato, il 25 maggio del 1928: “La Nouvelle Revue Française”, che egli non avrebbe esitato, qualora gli fosse stata concessa la libertà di esprimersi nel linguaggio egemone tra gli italici odierni, a tacciare di “radical chic” o molto peggio. L’esimio professionista, comunque, bruciava le tappe sulla retta via, lungo la quale correva a perdifiato per fare a tempo ad aggiungere l’ultimo respiro ad un coro che pregustava oceanico, dando alla propria delatoria diffida il titolo Légitime défense. D’altronde chi abbia considerato con la debita cura la rapsodica diegesi dell’opera in questione, Nadja, sa che in essa affiora, cristallino nell’ordine della trasparenza, il profilo della musa surrealista κατ’εξοχήν, proprio per non dire “per eccellenza”, colei che, a tutta prova, è necessario proteggere dal discorso subordinato ad una logica tanto anodina da assurgere, nel prossimo avvenire dell’inversione deontologica, quale sarebbe stata praticata, ad esempio, dalla psichiatria nazista – non più guarire, bensì sopprimere le «lebenunwertes Leben», «vite inadatte alla vita» –, fino al nefasto genocidio taylorista. Pertanto, sarà una sorpresa per pochi, sebbene non minore meraviglia per ciascuno, che il Secondo manifesto del surrealismo, proprio nel centenario di una precedente disputa, nota come «battaglia di Hernani», avendo opposto classici e romantici a proposito dell’omonimo dramma di Hugo, rivendicasse l’esistenza di un «certo punto dello spirito da dove la vita e la morte, il reale e l’immaginario, il passato e il futuro, il comunicabile e l’incomunicabile, l’alto e il basso cessano di essere percepiti contraddittoriamente» ed al quale aderiva nell’unico modo in cui sarebbe stato ancora possibile scongiurare la catastrofe: «permettere all’immaginazione dell’uomo di prendere su tutte le cose una rivincita eclatante, ed eccoci di nuovo, dopo secoli di domesticazione dello spirito e di folle rassegnazione, a tentare di liberare definitivamente quest’immaginazione attraverso il lungo, immenso, ragionato sregolamento di tutti i sensi ed il resto», la rivoluzione internazionalista, tra l’altro. Perché, come Breton precisava poco oltre, «noi pensiamo di aver fatto sorgere una curiosa possibilità del pensiero, che sarebbe quella della sua messa in comune», per ribadire che in quanto alla «nostra adesione al principio del materialismo storico… non c’è modo di giocare su queste parole. Che essa non dipende che da noi», sebbene in rue Colonel-Fabien i quadri del PCF, persuasi che se si è marxisti non si abbia bisogno di esser nient’altro, lo convocassero per metterlo alla prova e richiedergli un rapporto sulla situazione italiana, sottolineando non avesse ad appoggiarsi altro che su fatti statistici (produzione dell’acciaio etc.) e soprattutto non all’ideologia, proprio mentre il loro piccolo padre sovietico si occupava d’imporre ai gemelli transalpini la reintegrazione nel comitato centrale di quel Nicola Bombacci che sarebbe stato leale scudiero, ma del duce, e fino alla catabasi di Dongo. I partiti comunisti fecero come volle Stalin, cosicché il popolo dalle Alpi alla Sicilia non sia l’unico a patire il fascismo ancora oggi, sotto le nuove spoglie. Se il manifesto del 1929 domandò dunque «l’occultamento profondo ed autentico del surrealismo», ciò avvenne poiché «è all’innocenza, alla collera di alcuni uomini a venire che spetterà di far scaturire dal surrealismo ciò che non può mancare d’essere ancora vivo, di restituirlo, al prezzo d’un assai bel saccheggio, al proprio scopo»; pertanto «l’uomo che s’intimidirebbe a torto dinanzi a qualche mostruoso fallimento storico, è ancora libero di credere alla propria libertà. Egli è maestro a sé stesso, a dispetto delle vecchie nubi che passano e delle forze cieche che seguono di conserva. […] La chiave dell’amore, che il poeta diceva d’aver trovata, anche lui la cerchi bene: ce l’ha. Non sta che a lui elevarsi al di sopra del sentimento passeggero di vivere pericolosamente e di morire. Che egli usi, a dispetto di tutte le proibizioni, l’arma vendicatrice dell’idea contro la bestialità di tutti gli esseri e di tutte le cose e che un giorno, vinto – ma solo se il mondo è mondo – riceva la scarica dei loro tristi fucili come un fuoco a salve».

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