venerdì 25 ottobre 2019

Pellegrino a Port Bou


articolo di Giancarlo Micheli

pubblicato su Il Grandevetro (Anno XLIII, n.241, Autunno 2019)



Sovente, nella tossica nube mediatica che arrochisce ed attosca la voce umana fin nelle conversazioni da bar, il cui salace piscatorius è peraltro ormai involuto nei linciaggi e nei culti di infime personalità costituiti quale produzione segnica efficace all’interno del frenetico vaniloquio delle cosiddette “reti sociali”, per via di tali mezzi di produzione del gusto e finanche della logica contemporanee, si sentono citare, sempre più spesso, mortificanti statistiche riguardo alle scarse facoltà di lettura ed interpretazione anche del più semplice testo cui incorrerebbero oceaniche maggioranze tra i virtuali parlanti, i quali fanno quel che possono per adeguarsi al canone linguistico in vigore. Se gli fosse ancora accordato di esercitare il giudizio su simili dati, Walter Benjamin ne trarrebbe verosimilmente motivo per suffragare il pessimismo che lo persuase, nel settembre del 1940, a porre fine ad una vita che aveva fino ad allora dedicato allo studio ed alla riflessione filosofica. La decisione maturò durante un viaggio, che alle caratteristiche archetipiche del nòstos epico o dell’esodo ebraico, sovrappose le novecentesche della fuga. Data la brevità dei tempi che corrono, si potrà accennare solo en passant, senza alcuna velleità di intercettarne la dinamica esponenziale, alla diffusione che è intanto andata facendosi capillare della fattispecie del viaggio come fuga. Dall’Africa intestina fuggono in nugoli e legioni, braccati dalla miseria che i profitti delle multinazionali, proprietarie di risorse materiali e biologiche, largiscono a titolo di inderogabile crisma del credo neoliberista, inverato nei regimi locali, schietta espressione di una perseverante connivenza con le cupole finanziarie globali – in un “originario” vuoto legislativo si svilupparono infatti, anni addietro, le pratiche criminali emerse poi all’evidenza nei campi di detenzione libici ed altrove; quando, in seguito, le istituzioni europee investirono liquidità e competenze giuridiche per imporre ad alcune ex-colonie, situate sulle direttrici della tratta, una legislazione repressiva, l’effetto che ne scaturì fu la parziale legalizzazione di quanti non recedettero a lucrare sui traffici, nonché un aggravio delle efferatezze perpetrate contro coloro che non ebbero altra scelta se non di continuare ad affidare ai primi le loro sempre più flebili speranze –. Sebbene meno cruenta, è purtuttavia un’evasione pure il viaggio com’è istruita a consumarlo la working class del primo mondo, la quale, avvalendosi dei progressi tecnici dei mezzi di trasporto, attende ai rituali della vacanza alla stregua d’una liberazione, a tempo rigorosamente determinato, dal giogo di un lavoro viepiù alienante e meno creativo, quand’anche regga ancora, almeno in qualche comparto, la concorrenza dell’intelligenza artificiale, contuttoché ne risulta un’infaticabile pedagogia alla defezione dalla lotta di classe, che invece, qualora fosse condotta nelle varie patrie con lungimiranza internazionalista, colpendo, ovunque possibile, gli interessi del potere economico-finanziario, costituirebbe l’unica strategia valida per “aiutare a casa loro” gli immigrati, del cui flusso, inestinto e, in termini tutt’altro che episodici, esiziale, il banale interesse all’abbattimento del prezzo della forza lavoro rimane il primo movente. Vediamo, dunque, di non perdere la coincidenza, che pare offrirsi fortuita, tra i casi generali della specie, i cui individui appartengono in maggioranza di ora in ora schiacciante ad un multietnico popolo d’oppressi e sfruttati, ed il destino di un intellettuale in fuga dal più chiaro esempio di totalitarismo che la storia del “secolo breve” abbia conosciuto. Prima ancora che Hitler coronasse il sogno, vivaddio effimero, di veder garrire le croci uncinate sui boulevards parigini e di visitare in tutta pace il mausoleo di Napoleone agli Invalides, allo scoppio delle ostilità, Walter Benjanim, che al pari di altri antinazisti aveva trovato rifugio tra Svizzera e Francia, fu nel nutrito gruppo di cittadini tedeschi internati allo stadio Colombes, quello in cui si erano svolte le Olimpiadi del 1924, al tempo in cui egli faceva la conoscenza di Ernst Bloch e dell’opera di György Lukács, tanto da essere attratto fin da allora nell’orbita della critica marxista. Rilasciato grazie all’intervento di amici influenti, allorché venne l’occupazione, riuscì a sottrarsi alla cattura e a raggiungere Marsiglia. Da qua, assieme alla vedova Henny Gurland e al figlio diciassettenne di lei, decise di attraversare i Pirenei con l’intento di ottenere un visto di transito per il Portogallo e, infine, imbarcarsi per gli Stati Uniti. A Port Bou, invece, le guardie di confine franchiste lo trattennero per esporgli quale fosse il loro dovere: riaccompagnarlo alla frontiera, dal momento che era sprovvisto di un documento valido, che ne attestasse la nazionalità. In preda all’angoscia, si avvelenò con un sovradosaggio di morfina. Se è probabile che, mentre aspettava di addormentarsi un’ultima volta, ripensasse all’amico di gioventù, il poeta Fritz Heinle, suicida alla vigilia della Grande Guerra, oppure rammentasse le non poche occasioni in cui, dinanzi ai segni premonitori dell’incipiente barbarie, aveva meditato di togliersi la vita, come annotò nei diari, o ancora gli sovvenisse del fratello Georg, che da lì a due anni sarebbe stato ucciso nel campo di concentramento di Mauthausen, rimane un enigma, passibile di venir scalfito solo a forza di congetture, quale fosse il contenuto della voluminosa borsa di cuoio che portava con sé, come testimoniato dalla Gurland, e che sarebbe stata invece sequestrata e mai più restituita. Nessuno può dunque negare che, accanto ad una versione riveduta dei Passegenwerk, pubblicati postumi solo nel 1983, potesse trovar posto qualche appunto nel quale avesse sviluppato il tema di una conferenza tenuta cinque anni prima, il cui testo sarebbe apparso sul numero del luglio 1970 della «New Left Review». In questo testo, dal titolo L’autore come produttore, Benjamin sosteneva che «la tendenza politicamente corretta di un’opera include le sue qualità letterarie, poiché include le sue tendenze letterarie», le quali «si possono riconoscere nel progresso o nella regressione della tecnica letteraria»; discerneva, poi, tra gli scrittori autenticamente rivoluzionari e gli scribacchini al servizio del capitale – i quali ultimi poteva esemplare al lettore negli esponenti della Neue Sachlichkeit mentre oggi non avrebbe che l’imbarazzo della scelta ad indicarli in una ulteriormente oceanica maggioranza – secondo il criterio per cui i primi concepirebbero l’opera come un mezzo di produzione, un impulso all’agire politico, laddove per i secondi non si tratterebbe altro che di un articolo di consumo, un oggetto di piacere contemplativo.  Il compito che lo scrittore deve porsi «non è di trasmettere semplicemente l’apparato di produzione», bensì «di trasformarlo nella massima misura possibile in direzione del socialismo». Ed ecco infatti che, proprio al momento di concludere, il tempo che, un istante fa, sembrava volgere precipitosamente alla fine, rallenta e concede uno sguardo inatteso, simile a quello che il celebre angelo delle Tesi di filosofia della storia getta sul cumulo di macerie del passato mentre la tempesta che si sprigiona dal paradiso gli s’impiglia nelle ali e lo trascina verso il futuro cui volge le spalle, sicché confessi con ingenua letizia di aver a lungo ben lavorato sui mezzi di produzione del linguaggio in opere come Indie occidentali, La grazia sufficiente, Romanzo per la mano sinistra ed altre, né mi pare del tutto da escludere fossero già contenute in quella valigia, scomparsa ai piedi dei Pirenei, per la quale desideriamo, insieme al volonteroso lettore di codeste rapsodiche note, buone mani cui affidarla, poiché ciò che decide non è il pensiero individuale, ma l’arte di pensare ciò che è nella testa degli altri, affinché mutino entrambi nel senso dell’umanità nuova.

Giancarlo Micheli

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