mercoledì 22 luglio 2020

Per la critica delle stragi

un articolo di Giancarlo Micheli
pubblicato sulla rivista Il Grandevetro – trimestrale di immagini politica e cultura (Anno XLIV, n.244, estate 2020)


Le stragi delle quali questo numero seleziona una rassegna, sebbene non sia affatto vano indagare ciascuna nei dettagli da cui emerge in specificità di situazioni ed in singolarità di destini, avranno pure un denominatore comune in virtù del quale sia consentito illuminarle razionalmente, senza per questo pretendere di sussumerle sotto formule giornalistiche che conobbero effimere pandemie ed ancora non hanno avuto il tempo di essere del tutto immunizzate nel neutrale lessico storiografico, mi domando. Contrariamente all’abitudine, per cercare una risposta stavolta non mi avvarrò di metodi fortuiti, vado a colpo sicuro. Conosco esattamente il posto che occupa tra i volumi adiacenti, ed anche quale scaffale nella libreria. Si tratta di un saggio che Walter Benjamin scrisse, guarda caso, proprio durante i mesi in cui era in corso, a Torino, l’esperimento dei consigli di fabbrica, raro esempio di autogoverno dei lavoratori tra i parlanti la nostra lingua. Il titolo che il filosofo, allora ventinovenne, scelse fu Zur Kritik der Gewalt, Per la Critica della violenza, ed egli stesso tenne a precisare come l’analisi vertesse su rapporti giuridici determinati, peculiari all’Europa a lui contemporanea. Nell’ambito di essi iniziò rilevando una legge d’invarianza, secondo la quale gli ordinamenti statuali tendono, «in tutti i campi in cui fini di persone singole potrebbero essere perseguiti coerentemente con la violenza, a stabilire fini giuridici che possono essere realizzati in questo modo solo dal potere giuridico». A titolo di corroborazione, portava l’esempio delle norme che prescrivevano ai cittadini il servizio di leva, cosicché gli era facile concludere che «il militarismo è l’obbligo dell’impiego universale della violenza come mezzo ai fini dello Stato». Da lì veniva ad interrogarsi se fosse mai possibile una regolazione dei conflitti che facesse ricorso a mezzi puramente non violenti, per subito ravvisarla nel linguaggio, dalla cui sfera l’esclusione di principio della violenza è attestata da una circostanza significativa: l’impunità della menzogna. In origine nessun codice la proibiva. Un tale divieto sarebbe sorto soltanto in seguito, quale tratto distintivo di sistemi ormai non più efficienti nel contrasto ad ogni minaccia estranea, tanto che giungessero a sanzionare l’inganno non certo per considerazioni d’ordine morale, bensì per paura della violenza che esso potrebbe scatenare nell’ingannato. Queste furono le ragioni per le quali il diritto di sciopero venne accolto nelle varie legislazioni nazionali, benché contrario agli interessi dello Stato, sovrastruttura politica modellata a propria immagine per mano della classe ideologicamente egemone, nonché proprietaria dei mezzi di produzione. Ai mezzi coercitivi, intesi alla conservazione del diritto, il berlinese contrapponeva i mezzi puri della politica, in particolare lo sciopero generale, distinguendo in esso due sottocategorie decisive, grazie alle parole di Georges Sorel: per i partigiani del primo, lo sciopero generale politico, «il rafforzamento dello Stato è alla base di tutte le loro concezioni», se il loro riformismo trionfasse, e gli accadimenti successivi avrebbero dato loro purtroppo vittorie sin troppo numerose, «lo Stato non perderebbe nulla della sua forza, il potere passerebbe da privilegiati ad altri privilegiati, la massa dei produttori cambierebbe soltanto i suoi padroni»; al contrario, chi propugna il secondo, lo sciopero generale proletario, vuole sopprimere lo Stato, «la ragion d’essere dei gruppi dominanti che traggono profitto da tutte le imprese di cui l’insieme della società deve sopportare gli oneri».
Al fine di riportare codeste riflessioni entro la finestra repubblicana che la redazione ha deciso di prendere in esame, amico lettore, considera se la caratteristica, che accomuna la maggior parte degli efferati eccidi, di colpire alla cieca su vittime innocenti sia poco congruente alle prassi tipiche di quel ventennio nel quale Piero Gobetti lesse magistralmente l’autobiografia della nazione ed i cui timidi epuratori non seppero reperire indizi probatori altro che per stabilire l’identità di appena 390 collaborazionisti dell’OVRA, lasciando impunite oceaniche maggioranze di insigni conniventi al regime fascista, ma non dimenticare neppure altre empietà che sono andate nel frattempo perpetrandosi, non senza aggravio di nocivi effetti. Ad esempio, una statistica fornita dalla OMS, celeberrima in questi giorni di lutto e di psicosi collettiva, registra nella sola Italia ottantamila decessi all’anno attribuibili all’inquinamento atmosferico; intanto, le industrie che ne sono responsabili continuano di mese in mese, tramite il sistema mediatico di cui sono detentrici attraverso cartelli e trust, a rivendicare esenzioni e privilegi, di cui lo Stato non tarda a farsi il docile garante, laddove i diritti dei lavoratori vengono erosi con proporzionale sicumera. Gli imprenditoriali corifei del made in Italy continuano dunque ad accaparrare premi, prebende ed encomi, mentre le morti sul lavoro, a ratei costanti, mietono le vittime equivalenti a quelle d’un conflitto bellico di media intensità.
Ora, con validità esclusiva a quanto attiene al testo che hai tra le mani, voglio pertanto proclamarmi, in piena autonomia ed alla faccia delle italiche eccellenze, maestro del lavoro, in virtù del fatto, che perderesti il tuo tempo a voler contestare, di aver lavorato con gioia ogniqualvolta fosse possibile. Percepirai qua un metatesto? Qualora ciò non accada imputami pure, magari senza livore o compatimento, di aver voluto menarti per il naso, alla stessa stregua di quanto avrebbe fatto un qualsiasi autore di gialli, specie dominante, almeno in termini quantitativi, all’interno della famiglia del proletariato intellettuale che impiega i mezzi di produzione del linguaggio, quasi mai per trasformarli, bensì per il profitto dell’apparato editoriale-industriale. Sappi che non mi offenderò persino se vorrai classificare l’autore del testo che reggi tra le dita nel genere ristretto, ma non poi tanto, del sottoproletariato, entro la suddetta famiglia, essa per prima ormai di rado consapevole o solidale, di norma del tutto orba di coscienza di classe e a fortiori di specie. Il sottoproletariato: a sud delle Alpi è invalso designarlo così, ed anch’io all’apparenza debbo inchinarmi all’autorità dell’uso, ma non lo farò prima di aver ricordato il referente che il lemma incontra nella lingua di Goethe: Lumpenproletariat. Lumpen significa, alla lettera, stracci. Ciò offre occasione per ricordare l’epigrafe di Indie occidentali, dove narrai l’epopea degli immigrati che, dall’Europa e pressoché dal mondo intero, alimentarono di manodopera l’industria statunitense, al momento in cui oltreoceano si gettavano le basi della dominazione imperialista: «La parola bayeta è il termine comune spagnolo per straccio. Grandi quantità di questi erano prodotte in Inghilterra per il commercio spagnolo e messicano, la maggior parte dei quali era di un color rosso brillante. In questo modo l’inglese straccio divenne lo spagnolo bayeta per gli Indiani americani del Sudovest. Familiari con l’arte della tessitura, questi Indiani disfacevano la bayeta, la riavvolgevano in uno, due o tre fili e la ritessevano nelle loro coperte, che sono adesso quasi senza prezzo. Questa vecchia coperta fu trovata dall’autore in un recinto del Nuovo Messico, per pulire l’assale del suo calesse. Era coperta di fango e sporcizia. Un certo numero di lavaggi rivelò questo glorioso esemplare dell’arte della tessitura (da William Carlos Williams, The Great American Novel, Paris, The Three Mountains Press, 1923)».
Ad ogni buon conto, a te che, al postutto, riterrai ti sia conveniente l’appartenenza all’apparato, all’unica ed autentica burocrazia del sistema di avvilimento e incretinimento in vigore oggi, il cui operato potrebbe esser visto, finché non lo si vieti espressamente, come un ecumenico depistaggio delle menti e dei cuori, bada di non risvegliarti un mattino in cui la realtà venga rimessa sulle gambe: non sarà poca la vertigine nel ritrovarti a testa in giù. A te, invece, che al compimento di questa pur minima mutazione, ti sentirai donna o uomo come mai prima: confidiamo l’una nell’altro come in una medesima coscienza, affinché il mondo si riempia di differenti bellezze, quali ieri non sapevamo ancora immaginare.

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