giovedì 26 luglio 2018

Fogli di crocevia

un articolo di Giancarlo Micheli

pubblicato in Il GrandeVetro (Anno XLII, n.235, primavera 2018)

Sottoporre all’esercizio della critica l’uomo, “nel cui cervello risiede il sapere accumulato dalla società”, non è mai caso per una semplice esercitazione accademica. Per esplicita e sincera dichiarazione del suo autore, non lo fu nemmeno l’iniziativa di dare alle stampe, nel 1978, per i tipi dell’audace Pantheon Books (brand dotato di editorial independence all’interno del gruppo di appartenenza, facente allora capo alla General Electric ed oggi al colosso germanico-multinazionale Bertelsmann), un voluminoso saggio – dove la ponderosità stette, per una volta, in rapporto di proporzionalità diretta con il valore delle argomentazioni che vi furono sviluppate, pure in virtù della circostanza, vivaddio fausta, per cui fosse allora solo agli albori la retorica dell’insipida contractio orationis invalsa poi a seguito dell’ecumenica codifica in ottemperanza ai formati della socializzazione virtuale dei mezzi di produzione segnica – dall’asciutto titolo Orientalism (E. Said, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, Feltrinelli, Milano, 1999). L’autore, Edward Wadie Said, nacque nel 1935 a Gerusalemme, annessa allora al territorio del Mandato britannico di Palestina, e grazie agli uffici del padre, veterano dello U.S. Army, poté accedere alla cittadinanza americana, nonché ricevere un’educazione nei collegi britannici della città santa per le tre principali religioni monoteistiche, oltre che del Cairo e di Alessandria d’Egitto, prima di trasferirsi oltreoceano ove conseguì il Bachelor of Arts a Princeton ed i titoli di Master of Arts e Doctor of Philosophy ad Harvard. Di tale formazione cosmopolita il trattato del 1978 reca tracce orgogliose, se è vero che, nell’esaustiva mole dei materiali di cui si avvalse, Said volle inserire con particolare affetto una citazione che colui il quale egli stimò alla stregua di un maestro, lo storico della letteratura Erich Auerbach, aveva tratto da Ugo di San Vittore, beato della Chiesa cattolica oltre che eminente tra i fondatori della scolastica: “L’uomo che trova dolce il suolo natale è ancora un tenero principiante; quello per cui ogni suolo è come il suolo nativo è già più forte; ma perfetto è quello per cui l’intero mondo è un paese straniero”. Il libro si pose ed attinse lo scopo, a lungo meditato nel corso dell’esperienza vissuta, di mostrare come la disciplina degli studi orientalistici, all’interno della divisione del sapere cristallizzatasi in Occidente, fosse intrisa dei pregiudizi peculiari alla civiltà da cui emerse, servisse, in ultima istanza, al processo di individuazione della soggettività enunciante, senza lesinare il ricorso ai meccanismi proiettivi delle intestine paura e ripugnanza dinanzi all’alterità del Medio Oriente islamico – continente di remoti prodigi e misteri, per molti secoli sineddoche tramite cui definire l’intero mondo estraneo all’Occidente, tanto l’India dei Veda quanto la Cina del taoismo –, in origine sede astratta ed ideale per rimuovervi gli istinti aggressivi e autodistruttivi, gradualmente anche serbatoio da cui reintegrare le energie necessarie a sostenere i successivi conati espansionisti. Quindi, se nel medioevo cristiano l’Alighieri dannava Maometto agli inferi con la subalterna pena spettante agli eretici della vera religione, la spedizione napoleonica in Egitto doveva prevedere, aggregata agli ausiliari delle truppe conquistatrici, la compagine di un fior fior di letterati e uomini di scienza affinché compilassero la monumentale Description de l’Égypte, regesto enciclopedico delle nozioni che solo l’Occidente, tonico adesso di cavalli vapore e già scalpitante di circoncidere l’istmo che dal miocene unì l’Africa all’Asia, poteva fornire al fiacco e passivo Oriente, inetto a procurarsele in autonomia. La parabola dell’iperfetazione di questo ambivalente senso di superiorità viene indagata nel dettaglio degli specialisti anglosassoni, sovente funzionari delle nascenti istituzioni accademiche o governative di studi asiatici quali Sir William Jones, talora avventurieri individualisti come T.E. Lawrence o eruditi dilettanti come Edward William Lane, ovvero statisti come Lord Cromer o l’Arthur Balfour onomastico della celebre Dichiarazione; non è certo trascurata la scuola francese, da Silvestre de Sacy a Louis Massignon attraverso Chateaubriand e Lamartine, tra i cui esponenti si rintracciano le scaturigini del razzismo contemporaneo in Gobineau e nel pur valente Renan, né le minori né le ulteriori sulle quali venne poi a dominare la statunitense, neppure le varie tipologie d’approccio, dagli estrosi creativi, alla Nerval o alla Twain, agli ossequienti compilatori di una dottrina metafisica a antistoricistica, alla Bernard Lewis. Lo stile, benché attento a rimanere nel solco del canone filologico a guisa di adeguato veicolo verso la mèta di un meglio effettivo universalismo, azzarda incursioni nel registro di un sarcasmo militante, ad esempio quando reperta gli atti di convegni o gli articoli di prestigiose riviste sotto la perniciosa amministrazione di Nixon e Kissinger, dove vari specialisti sviscerano che, laddove i procedimenti di pensiero della mente umana possono essere ricondotti ad otto tipi, l’islamica ne conoscerebbe soltanto quattro, oppure che l’eccessiva propensione alla retorica e alla prolissità della lingua araba renderebbe i popoli che la parlano incapaci di una completa funzionalità psichica, fatto che troverebbe riscontro nei disordini sessuali cui vanno soggetti i membri di quella regressiva etnia; e ancora quando riferisce delle autorevoli analisi di P.J. Vatikiotis in merito ai moti rivoluzionari sorgenti allora nel mondo arabo, pietra dello scandalo per l’ortodossia orientalista, tanto da esigere il ricorso ai mezzi ermeneutici caratteristici alle diagnosi dei disturbi della personalità e dello sviluppo psicosessuale: «La politica, per il rivoluzionario, […] deve cessare di essere ciò che era sempre stata, cioè un’attività adattiva, nel tempo, finalizzata alla sopravvivenza. La politica soteriologica, metastatizzante, detesta adattarsi, perché come potrebbe altrimenti aggirare le difficoltà, ignorare e scavalcare gli ostacoli costituiti dalla complessa dimensione biopsicologica dell’uomo, mesmerizzare la sua razionalità penetrante, ancorché fragile e limitata?».
E tali tesi non poco stupefacenti il già ricordato Bernard Lewis si sentì in dovere di suffragare con sottili competenze etimologiche: «Nei paesi di lingua araba una differente parola era in uso per designare la rivoluzione: thawra. La radice th-w-r in arabo classico significava alzarsi (ad esempio di un cammello), eccitarsi o emozionarsi e quindi, soprattutto nell’uso maghribi, ribellarsi».
Vent’anni dopo la prima pubblicazione, allorché Said, nella circostanza offerta dalla nuova edizione, esaminò, attraverso le intercorse traduzioni in numerose lingue, il contributo dato dall’opera alle pionieristiche prospettive multiculturali che, nell’ambito dei nascenti Subaltern Studies, tentarono di osteggiare il blocco ideologico globalista, egli concluse che «l’“essenza” dell’islam o dell’Oriente non siano niente di più che immagini, tenute in vita sia dalla comunità dei fedeli musulmani sia (e la corrispondenza è significativa) dalla comunità degli orientalisti», così da evocar quasi una sorta di nemesi profetica, compiutasi poi nei recenti episodi che registrarono la tempestiva repressione delle lotte sociali e politiche delle cosiddette “primavere arabe” mentre le macchine dell’ingerenza imperialista, di nuovo plurivoche sotto mentite spoglie liberaldemocratiche, stringevano sul collo dei popoli i nodi scorsoi di criminose alleanze con le fazioni fondamentaliste o variamente autoritarie, riprodotti ormai in mediatico regime di trasparenza. A chi ancora sappia e voglia scegliere la propria parte nel tragico teatro della realtà è rimesso dunque, una volta ancora, il gioco a carte scoperte della solidarietà internazionalista, propedeutico alla vera libertà dei cuori e delle menti infine umane.
Giancarlo Micheli

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