giovedì 26 luglio 2018

L’oscuro di ogni sostanza

una recensione di Giancarlo Micheli
a L’oscuro di ogni sostanza (La Vita Felice, 2017) di Francesco Macciò


Nel vuoto quantistico – dove organico ed inorganico coesistono in interazioni talora pacifiche o distruttive ma sempre esoteriche per oceaniche maggioranze che si estenuano ancora tragicamente in cerca di una coscienza di specie – si compiono, adesso, meraviglie cui pochi stenterebbero a conferire i crismi del prodigio e persino del miracolo. La nostra cultura, quella depositata, nel corso dell’effimera contemporaneità quale capitale fisso, miseria attuale della donna e dell’uomo “nel cui cervello risiede il sapere accumulato dalla società”, trascorre accanto, contiene ed esprime tali misteri con indifferenza o ancestrale tremore, sovente con superstiziosa esaltazione, nei fasti cerimoniali dei concetti mercificati, nella propaganda del regime mediatico, nella prassi perversa nelle cui declinazioni la psicologia dell’individuo è ridotta ad etichetta di un’etica religiosa e nichilista. La poesia è la risposta dialettica a tale scena pietosa, è totalità del conoscibile in un tempo durante il quale l’artificiosa divisione tecnica del sapere istituisce una particolare forma storica di totalitarismo. Così, con andamento che rifulge a tratti di esemplarità, L’oscuro di ogni sostanza (La Vita Felice, Milano, 2017) traguarda, entro la misura di un verso vigile e indicante lo sfondo ritmico di una portante enneasillabica, il residuo interstiziale dell’invisibile ed indicibile, al cui cospetto la lingua d’uso, nonché la letteraria quale di lei riflesso incondizionato, si ritrae alla stessa stregua di una membrana omeostatica; la materia poetica di Francesco Macciò affonda, invece, nella malinconia analogica in cui Jean Starobinski fece consistere la propria superba lettura di Baudelaire al Collège de France nell’anno che precedette lo scioglimento, solo ideologico, del dicotomico equilibrio del terrore al di là della cui soglia l’umanità fu relegata alla sudditanza cognitiva ad un “discorso del padrone” che viene facendosi, di stagione in emergenza climatica, monodimensionale man mano che procede alla virtualizzazione colonialista degli atti espressivi. Yves Bonnefoy, goduta l’opportunità di esser presente in carne ed ossa a quel seminario, ne dedusse una finalità civilizzatrice per la poesia e per la critica che le sia vivente corollario: “Di ciò che eccede il senso fare del senso; ai margini della ragione, tra le scorie e i fuochi, operare la sintesi di una ragione superiore”. In tale mirare al punto morto inferiore dello scibile, oltre della morte individuale ed anche dell’estinzione delle specie o delle conflagrazioni cosmiche, la poesia di Macciò si congeda da se stessa quale strumento, linguaggio funzionale ad una codifica cui segua impersonale esecuzione, si incammina dunque incontro all’umanità, sorprende il poeta mentre rivolge lo sguardo splenico allo specchio e vi ravvisa, nel riflesso della propria pupilla, Dioniso che, fissando sé, vede il mondo. “E non importa se era Eco o finzione,/ se desiderio o visione/ questo doppio indizio del vero” sarà avvertito chi giunga alla conclusione della settima tra le Scene in sequenza, sezione centrale della raccolta ed il cui titolo evoca l’empirismo eretico pasoliniano, intenzionato ad evadere nella “lingua scritta della realtà”. Non sarà stato per caso se, nei medesimi anni del casarsese, un altro “suicidato della società”, ai margini del canone inverificato della poesia italiana novecentesca, prese commiato dalle Muse con una raccolta denominata con consapevole irritualità Romanzi naturali, il cui poema conclusivo chiamò Ghigo vuole fare un film, in pieno presagio del Panopticon che, oggi, c’illude e ci prostra. Pertanto, nella penultima sezione della silloge, laddove vi giunge alle Inferenze, Macciò mostra la “[…] sostanza cieca/ che rimane nella carne,/ nel principio della nostra voce/ come nella brace per un istante/ la forma di ciò che è bruciato”. Ciò non vieta all’Oscuro di ogni sostanza di riemergere dagli abissi che ha sondato, né di tornare a riveder, nel conclusivo Pilgrimage, le doppie luci baudelairiane le quali, ovulando infine in “miroirs jumeaux”, si proiettano in “quella partenza che si compie/ nella durezza mite di un ritorno”.
Giancarlo Micheli

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